Salvo D’Acquisto nacque nel quartiere Vomero di Napoli il 15 ottobre del 1920 da Salvatore D’Acquisto e Ines Marignetti; fu il maggiore di cinque figli. Il padre aveva partecipato alla I Guerra mondiale nel corpo dei bersaglieri e al momento della nascita di D. era occupato in qualità di operaio presso la Società italiana ossigeno.
L’infanzia di D. fu caratterizzata dalla difficile situazione economica familiare, dovuta in particolar modo alla difficoltà che il padre riscontrò nella pratica della sua attività professionale a seguito di un grave incidente alla gamba destra occorso nello svolgimento delle sue mansioni sul luogo di lavoro. Trascorse gli anni della prima formazione scolastica nella città natale, frequentando prima l’asilo presso l’istituto salesiano delle Figlie di Maria ausiliatrice e, successivamente, le elementari presso la scuola Luigi Vanvitelli che frequentò fino alla terza classe. Quindi, nel 1929, cominciò la quarta elementare presso l’Istituto salesiano del Sacro Cuore, situato nel quartiere Vomero.
Nel 1931 si iscrisse alla scuola di avviamento professionale Giambattista Della Porta, dove però non rimase per lungo tempo. Solo un anno più tardi, infatti, abbandonò gli studi professionali e passò al Liceo Ginnasio Gian Battista Vico, retto dai salesiani, nel quale si diplomò. Fu in questi anni che, dopo essersi iscritto per un periodo come socio all’Apostolato della preghiera, partecipò attivamente alla vita dei giovani di Ac, attraverso l’associazione interna all’Istituto salesiano.
Viste le forti difficoltà economiche della famiglia, D. decise ben presto di avvicinarsi al mondo del lavoro e, dopo aver abbandonato definitivamente gli studi, nel 1934 fu assunto come operaio presso la piccola ditta di uno zio, Giuseppe Pindilfi. Dopo soli tre anni, però, dovette forzatamente lasciare il posto per l’improvvisa chiusura del laboratorio decisa dallo zio.
Nella primavera del 1939 D. ricevette la cartolina per adempiere il servizio di leva. Dopo aver passato la visita medica al distretto militare di Napoli il 15 giugno 1939, il 15 agosto dello stesso anno si arruolò come volontario nell’Arma dei Carabinieri reali iscrivendosi alla scuola allievi di Roma, nella quale rimase fino al 15 gennaio del 1940, data in cui assunse la qualifica di carabiniere. A solo un mese dalla nomina fu assegnato alla Compagnia di comando della Legione di Roma e, nel giugno del 1940, venne quindi spostato al Commissariato generale per le fabbricazioni di guerra.
Il 28 ottobre del 1940, a quattro mesi dall’ingresso dell’Italia nel secondo conflitto mondiale, D. decise di arruolarsi come volontario, venendo quindi mobilitato per l’imminente campagna del Nordafrica a seguito della 608ª Sezione carabinieri addetta alla sicurezza della divisione aerea Pegaso della Regia Aeronautica. Il 15 novembre i vari reparti si imbarcarono per la Libia e raggiunsero la città di Tripoli una settimana dopo, in attesa di conoscere il proprio dislocamento. La 608ª Sezione carabinieri venne destinata al servizio di sorveglianza dei campi di aviazione che si trovavano nella zona. Pur lontano dalla prima linea e dunque dai diversi teatri di battaglia che si aprirono nel corso dei mesi, D. il 14 febbraio del 1941 subì un grave incidente dovuto al ribaltamento della camionetta sulla quale stava viaggiando, rimanendo ferito a una gamba. Dopo le cure che ricevette all’ospedale militare di Bengasi e un breve periodo di convalescenza, riuscì tuttavia a riprendere il proprio servizio tra i commilitoni. Ben più grave si rivelò, nel corso dell’aprile dello stesso anno, la diagnosi di una febbre malarica che gli venne riscontrata e che aveva dunque contratto durante la sua permanenza in Libia. Dopo essere stato trasportato con urgenza nell’ospedale della cittadina di Derna, D. fu costretto a spostarsi in altre cliniche presenti nel territorio, venendo trasferito prima a Barce e, successivamente, nell’ospedale di Bengasi, dove era stato pochi mesi prima. Dimesso il 14 agosto del 1941 e costretto a una lunga convalescenza, decise di accettare il suggerimento del comandante del reparto che da tempo lo invitava a mettere a frutto le sue capacità facendo richiesta di partecipare al corso per allievi sottoufficiali che si sarebbe tenuto a Firenze l’anno successivo.
Rientrato in Italia, il 13 settembre 1942 venne ammesso alla scuola di Firenze per allievi sottoufficiali dei carabinieri e assegnato alla IV Compagnia. Al termine del periodo trascorso nel capoluogo toscano, il 15 dicembre dello stesso anno venne nominato vicebrigadiere. Il 22 dicembre, con il grado appena assunto, D. venne destinato, temporaneamente in qualità di comandante, alla stazione dei carabinieri di Torrimpietra, piccolo paese situato nella periferia di Roma. La guarnigione sotto il suo controllo aveva giurisdizione su un territorio abbastanza vasto, dovendo operare anche nella limitrofa località di Palidoro. Solo durante il mese di luglio del 1943, poco prima della caduta del regime, D. venne sostituito al comando della stazione dal maresciallo Alfonso Monteforte.
A seguito della firma dell’armistizio dell’8 settembre 1943 alcune posizioni particolarmente strategiche dislocate nelle zone vicine alla caserma di D. vennero occupate da reparti tedeschi. In particolare una formazione di paracadutisti della II Fallschirmjäger-Division si attestò nei pressi della località Torre di Palidoro, prendendo possesso di vecchie strutture che erano appartenute alla Guardia di Finanza. Il territorio, come detto, si trovava sotto la giurisdizione territoriale della caserma dei Carabinieri in cui operava D. Solo quattro giorni dopo, per avere direttive sull’atteggiamento da tenere nei confronti dei tedeschi occupanti, D. venne spedito a Roma dal comandante della stazione per recarsi al Comando generale dell’Arma. Nonostante le richieste, non riuscì a ottenere informazioni chiare e istruzioni precise e, senza una linea da adottare, fece ritorno in tutta fretta a Torrimpietra, dove il maresciallo Monteforte lo attendeva per affidargli temporaneamente il comando e potersi recare anche lui nella capitale per raggiungere la famiglia e condurla in un luogo più sicuro.
Il 22 settembre alcuni paracadutisti tedeschi, che stavano ispezionando delle casse di munizioni rinvenute presso i locali delle strutture occupate, furono vittime dell’esplosione di una delle bombe a mano, probabilmente requisite in passato dai finanzieri ai pescatori di frodo che operavano nella zona, che stavano incautamente controllando. Dopo le cure prontamente apprestate due risultarono gravemente feriti e di un milite fu invece confermato il decesso. Per non ammettere la negligenza dei soldati del proprio reparto, il comandante della guarnigione tedesca decise di attribuire la responsabilità di quanto accaduto ai finanzieri che prima erano di stanza nella caserma o a non identificati partigiani che operavano nella Resistenza locale. Immediata fu la minaccia di rappresaglia contro la popolazione locale se entro l’alba del giorno successivo non si fossero rivelati i colpevoli della vicenda e altrettanto sollecita la richiesta di supporto alla caserma dei carabinieri dove D., per la temporanea assenza del maresciallo, si trovò a dover condurre in prima persona le indagini per provare a meglio definire la situazione. Il giorno successivo, dopo aver provato a ottenere delle parziali informazioni su quanto avvenuto, egli si presentò al Comando tedesco per sostenere la tesi dell’incidente fortuito e scagionare la popolazione che non poteva in alcun modo essere ritenuta responsabile. Ciononostante gli ufficiali a capo della guarnigione nazista non vollero ascoltare le motivazioni addotte da D. e decisero di confermare l’ordine di rappresaglia, visto che non era stato possibile ottenere i nomi dei presunti attentatori.
Nel corso della mattina del 23 settembre venne dunque condotto un duro rastrellamento per le strade del paese e furono poste in stato di arresto ventidue persone. Lo stesso D., come unico rappresentante delle istituzioni italiane della zona, venne condotto forzatamente presso la piazza principale di Palidoro per prender parte al sommario interrogatorio ai quali i tedeschi sottoposero tutti gli uomini rastrellati. Gli ostaggi, pur pressati dagli agenti, continuarono a dichiararsi innocenti e nessuno fu in grado di fornire ai tedeschi le informazioni che chiedevano con perentoria autorità. Con ferma ostinazione degli uomini, venne nuovamente chiesto a D. di indicare i nomi dei responsabili di quanto accaduto. Quest’ultimo non poté far altro che ribadire l’assoluta estraneità della popolazione locale vista la casualità dell’avvenimento, che avrebbe dovuto essere considerato uno spiacevole incidente.
Volendo arrivare fino in fondo a quella vicenda, anche per dimostrare agli abitanti della zona il trattamento riservato a chi collaborava con la Resistenza, gli ufficiali tedeschi fecero spostare gli ostaggi nelle vicinanze della Torre di Palidoro e gli intimarono di cominciare a scavare una fossa comune attrezzandoli di vanghe e picconi. Si dimostrò subito chiaro che la richiesta dovesse essere il preludio alla imminente fucilazione. Contrariamente a quanto andava delineandosi però, al termine delle operazioni di scavo, vennero rilasciati tutti gli uomini eccetto il vicebrigadiere D. che, vedendo l’intenzione di portare a compimento l’esecuzione delle ventidue persone da parte del comando tedesco, decise di autoaccusarsi di quanto accaduto e denunciò sé stesso a un ufficiale che stava coordinando le operazioni della giornata. I ventidue uomini, vedendosi improvvisamente liberi e non messi al corrente di quanto stava accadendo, si allontanarono in tutta fretta in direzione delle loro abitazioni per non correre il rischio di un ripensamento da parte dell’ufficiale tedesco. L’unico prigioniero al quale venne intimato di rimanere all’interno della fossa fu proprio D., al quale fu dunque confermata la pena della condanna a morte. Dinanzi al plotone di esecuzione ebbe modo di gridare per l’ultima volta «Viva l’Italia!», poi venne raggiunto da una scarica di mitra che lo lasciò esanime a terra.
Il corpo senza vita di D. rimase nella fossa per i successivi dieci giorni; solo allora due donne della zona, Wanda Baglioni e Clara Lambertoni, si preoccuparono di richiedere il permesso al comando tedesco di recuperare la salma e di seppellirla presso il cimitero comunale di Palidoro. Al termine della guerra, nel giugno del 1947, la madre di D. riuscì a recuperare le spoglie del figlio per farle tumulare nel cimitero di Napoli. La salma giunse nella città natale l’8 giugno 1947 e fu trasportata nella camera ardente della caserma del Comando regionale della Campania, dove ricevette gli onori dell’Arma, quindi nuovamente tumulata il 10 giugno successivo nel Sacrario militare sito a Posillipo. Dal 22 ottobre del 1986 le sue spoglie sono conservate nella Basilica di Santa Chiara di Napoli.
Il 17 febbraio 1945, quando il secondo conflitto mondiale si apprestava a terminare, venne conferita alla memoria del sacrificio di D. la medaglia d’oro al valor militare con la qualifica di vicebrigadiere dei carabinieri con la seguente motivazione: «Esempio luminoso d’altruismo, spinto fino alla suprema rinuncia della vita, sul luogo stesso del supplizio, dove, per barbara rappresaglia, era stato condotto dalle orde naziste insieme con 22 ostaggi civili del territorio della sua stazione, pure essi innocenti, non esitava a dichiararsi unico responsabile di un presunto attentato contro le forze armate tedesche. Affrontava così — da solo — impavido la morte, imponendosi al rispetto dei suoi stessi carnefici e scrivendo una nuova pagina indelebile di purissimo eroismo nella storia gloriosa dell’Arma. Torre di Palidoro (Roma), 23 settembre 1943».
Il processo di beatificazione fu istruito nel novembre del 1983 quando venne aperta la fase diocesana presso il tribunale ecclesiastico dell’Ordinariato militare d’Italia che si fece sostenitore della causa. L’inchiesta, terminata nel novembre del 1991, fu convalidata solamente due anni più tardi e la Positio, in due volumi, fu consegnata alla Congregazione delle cause dei santi il 17 gennaio del 1996. Vista la difficoltà nel districarsi tra i due piani del martirio e quello dell’eroicità delle virtù, venne richiesta un’indagine suppletiva per accertare il martirio per testimonium caritatis heroicis, possibilità aperta da Giovanni Paolo II attraverso la canonizzazione di padre Massimiliano Kolbe per promuovere una forma di martirio strettamente legato agli atti eroici e di pietà operati durante l’occupazione tedesca in Europa. Nel 1999 venne dunque presentato un terzo volume per la Positio, ma la Congregazione nel corso del 2007 emise parere sospensivo sulla possibilità di dichiarare ufficialmente martire D.