Giuseppe Candiani, detto Peppino, nacque a Milano l’8 marzo del 1925 da Angelo e Maria Galli. Rimasto orfano molto presto di entrambi i genitori, venne cresciuto dalla due sorelle maggiori, Rosetta e Carla. Negli anni della giovinezza, che trascorse nel capoluogo lombardo, divenne socio della Gioventù cattolica di Crescenzago.
Non è noto se durante il periodo bellico C. fece parte delle Aquile randagie, gruppo scout clandestino che, sotto la carismatica guida di Giulio Cesare Uccellini, decise di non deporre il proprio labaro ufficiale e di continuare l’attività proponendo agli aderenti anche una formazione antifascista. Successivamente alla ratifica dell’armistizio di Cassibile, comunque, il giovane si inserì tra le fila della 18ª Brigata del popolo ed entrò in contatto con l’Opera scoutistica cattolica aiuto ai ricercati (Oscar), nome poi trasformato in Organizzazione soccorsi cattolici antifascisti ricercati, una rete messa in piedi da alcuni sacerdoti milanesi, che pose il proprio centro operativo nel collegio San Carlo e sostenne l’espatrio di ebrei e perseguitati politici, attraverso la costante produzione di documenti falsi e missioni di accompagnamento verso il confine con la Svizzera. Si stima che al termine del conflitto furono circa tremila i documenti di identità prodotti e circa duemila gli espatri organizzati per favorire la fuga dei ricercati.
Nella primavera del 1944 C. decise di non rispondere ai bandi di reclutamento emanati dal generale Graziani per la costituzione del nuovo esercito della Repubblica sociale italiana che comprendevano anche la sua classe di leva e dovette quindi preoccuparsi delle stringenti maglie dei controlli fascisti contro i disertori e i renitenti alla leva. Inserito nel 1° distaccamento dell’Oscar, operò in particolar modo nel quartiere milanese di Crescenzago, nella periferia nord-orientale della città, agli ordini del parroco della chiesa di Santa Maria Rossa e commissario di guerra don Enrico Bigatti, impegnandosi nelle missioni di protezione degli espatri. Proprio questo fermento di attività svolte dall’organizzazione fu motivo di grande biasimo da parte delle istituzioni repubblichine. In una lettera del Comando della compagnia speciale della Gnr di Monza, del 21 febbraio 1945, il capitano Giovanni Brutti scrisse: «Ripetiamo nuovamente che i peggiori nemici del Regime sono rappresentati in primo luogo dall’Azione cattolica e dall’Oscar (ex ragazzi esploratori cattolici, che presentavano all’atto del loro discioglimento per essere incorporati nella Gil una organizzazione paramilitare con graduati e comandanti) e poi dalla Società maschile e femminile della San Vincenzo».
La notte del 6 maggio del 1944 al giovane vennero affidate diciassette persone da accompagnare oltreconfine in una missione da effettuare in cordata lungo il passaggio che portava alla frontiera con la Svizzera. Don Natale Motta raccontò nel dopoguerra che, al momento della partenza, C. si era detto fiducioso di riuscire a portare a termine la missione: «Don Motta non si preoccupi, stamattina ho fatto la Comunione ed ho detto al Signore: stasera in Svizzera o in Paradiso». Durante questa operazione, però, uno degli uomini a lui assegnati, che proveniva dalla Lituania, cadde durante il tentativo di superare uno strapiombo e si impigliò nella corda di sicurezza. La paura di precipitare nel vuoto lo indusse a urlare e a richiamare l’attenzione di una pattuglia tedesca non troppo distante. I militi nazisti, arrivati sul luogo, aprirono il fuoco verso il gruppo di uomini guidato da C. che, nel tentativo di mettere tutti in salvo, venne colpito da una scarica di mitra che lo fece cadere esanime nelle acque del fiume Tresa.
In una relazione compilata dal comandante della 18ª Brigata del popolo si trova conferma dell’episodio che portò il giovane alla morte: «La notte del 6 maggio 1944 nei pressi di Creva, una piccola frazione del comune di Luino in provincia di Varese, nell’effettuare in cordata un passaggio di frontiera il suddetto indugia per portare aiuto al Lituano Marcovic, che era stato affidato alle sue cure, e che si era impigliato nella corda, ma sorpresi dalla pattuglia nazi-fascista il Candiani è colpito a morte nel fiume Tresa». La salma fu recuperata solo dopo alcuni giorni presso la diga di Luino, come ricordato da don Enrico Bigatti in un appunto sul suo diario alla data del 17 maggio 1944: «Stasera: Peppino Candiani trovato morto annegato! La notizia mi è stata folgore. Mio Dio! In un attimo ho visto la crudezza della verità e della realtà. Ho tremato della mia responsabilità, della mia inarrivabile miseria. O Maria, salvami, salvaci!». Due giorni dopo scriveva ancora: «Giornata di grandi pensieri e riflessioni dopo il doloroso avvenimento. Quel giovane sarà morto solo, senza prete nei sacramenti, usufruendo soltanto del bene ricevuto da noi preti, da me, come di una rendita unica ed indispensabile per il grande viaggio dell’eternità da cui non più si torna».