Emanuele Carioni nacque il 20 novembre del 1921 a Misano di Gera d’Adda, in provincia di Bergamo, da Annibale e Maria Canevisio. I suoi genitori, che contavano anche altre due figlie, traevano sostentamento dalla gestione di un grande mulino avuto in eredità. Dopo aver frequentato le scuole elementari nel paese natale, C. fu ammesso al collegio San Carlo di Celana e in parrocchia fu socio e dirigente del circolo giovanile di Azione cattolica. Nel periodo in cui l’Italia entrò nel secondo conflitto mondiale, il giovane si iscrisse alla facoltà di Chimica industriale dell’Università degli studi di Milano.
Richiamato sotto le armi per assolvere gli obblighi di leva, venne ammesso al corso per allievi ufficiali di complemento d’artiglieria a Nocera Inferiore. Terminato il periodo di formazione militare, fu promosso al grado di tenente e inviato prima a Colle di Tenda e, successivamente, in Albania. Andato in attrito con i suoi superiori per il comportamento troppo benevole tenuto con i sottoposti, C. fece richiesta per essere ammesso al corso per allievi paracadutisti a Tarquinia e allontanarsi dal fronte. Ultimatolo con successo, si vide destinato alla base di Decimomannu, in provincia di Cagliari, dove ottenne il primo incarico. Fu in questo contesto che fu raggiunto dalla notizia della ratifica dell’armistizio di Cassibile. Insieme ai suoi commilitoni e con il decisivo intervento di un sacerdote riuscì a procurarsi un volo sicuro per la Sicilia, quindi un passaggio fino a Brindisi e, infine, un posto su un treno diretto verso l’Italia settentrionale, già occupata dalle truppe tedesche, per tentare di avvicinarsi verso la casa familiare.
Il 28 dicembre del 1943, dopo un periodo di riflessione, decise di aderire all’organizzazione americana Oss (Office of Strategic Service) che, in collegamento diretto con il comando dell’esercito statunitense, aveva il compito di tenere contatti con le formazioni della Resistenza e di coordinare missioni militari nella zona occupata dai tedeschi. Nella primavera del 1944 gli venne affidata la missione denominata «Emanuele» e fu paracadutato sulle montagne orobiche, sopra San Giovanni Bianco, con l’ordine di raggiungere la zona di Barzio per collaborare coi partigiani e coordinarne le attività. Raggiunto l’obiettivo ma persa la radio che li collegava con il comando, C. e i suoi compagni si nascosero in casa delle due sorelle Rina e Luciana Villa che, pur sapendo di rischiare molto, decisero di ospitarli per qualche tempo. Una sera, durante una riunione con altri partigiani, arrivarono a casa Villa due russi che, mentendo sulla loro identità, si spacciarono per prigionieri di guerra evasi e convinsero il gruppo a coinvolgerli nelle operazioni contro i nazifascisti. Fu proprio uno dei due, il giorno successivo, a denunciare C. a una pattuglia di militi tedeschi mentre si trovava a Milano per incontrare un emissario della missione alleata. Posto immediatamente in stato di arresto, il giovane venne condotto a San Vittore e sottoposto a duri interrogatori per indurlo a rivelare la sua compromissione con il movimento resistenziale. Trincerato dietro un ostinato silenzio, il 29 giugno fu trasferito al campo di concentramento di Fossoli, presso Carpi, dove gli venne dato il numero di matricola 2043 e si vide assegnato alla baracca degli internati politici.
Non trascorse molto tempo nel campo visto che, a rappresaglia di un attentato ordito proprio a fine giugno da una formazione di partigiani genovesi ai danni di un plotone di militari delle SS, in cui trovarono la morte sei militi ˗ questa almeno fu la motivazione letta davanti ai detenuti, anche se probabilmente la decisione era legata allo sgombero del campo, eliminando i prigionieri più pericolosi ˗ venne dato ordine dalle autorità tedesche di procedere alla selezione di settantuno internati che sarebbero stati fucilati. All’elenco stilato dai carcerieri in ottemperanza a quanto disposto venne compreso anche il nome di C. Conosciuta la sua sorte, il giovane ebbe la possibilità di scrivere un’ultima lettera alla famiglia dove, tra l’altro, volle motivare la sua scelta di prendere parte al movimento resistenziale: «Seguo gli avvenimenti di fuori su un pezzo di carta disegnata su un muro con un pezzo di legno; sono bene informato di tutto. Però il più delle volte penso. Mi preoccupo soprattutto che voi vi diate troppo pensiero e siate in ansia riguardo la mia situazione presente. Sono sicuro che tutto finirà bene e presto. Sono convinto di aver agito per un ideale giusto, quale il combattere il male: per impedire che l’Italia fosse trascinata nel baratro della rovina completa da pochi disonesti. Questa mia fede vi sia di conforto». All’alba del 12 luglio vennero tutti condotti al poligono di tiro di Cibeno, a Carpi, dove subirono l’esecuzione della condanna a morte e furono seppelliti in un’unica fossa comune.
Con decreto ufficiale del 30 gennaio del 1948, gli venne concessa la medaglia d’argento alla memoria con la qualifica di sottotenente paracadutista di complemento, attivo nello stato maggiore dell’Esercito, e questa motivazione: «Volontario per una missione di guerra, veniva paracadutato nel territorio occupato dal nemico. In un breve ma intenso periodo di attività, organizzava ardite operazioni contro le linee di comunicazione dell’avversario, potenziava reparti di resistenza per la lotta clandestina, segnalava al comando Alleato notizie di grande importanza operativa. Denunciato ed arrestato veniva tradotto a Fossoli, dove, dopo torturanti interrogatori e sevizie inenarrabili, veniva fucilato. Fulgido esempio di coraggio e di altissimo senso del dovere. Zona di operazione, aprile 1944 – giugno 1944». Nel 1946 l’Università degli studi di Milano gli conferì la laurea honoris causa.