Nato a Brescia il 19 gennaio 1922, figlio di Angelo, un piccolo commerciante, e di Anna Lonati, Emiliano, dopo aver frequentato la scuola materna dalle Suore Dorotee in via Marsala e le elementari in via delle Grazie, compì gli studi magistrali presso l’istituto “Veronica Gambara”, dove ottenne la maturità nel 1940.
Frequentò l’Oratorio Filippino dei Padri della Pace, dove ebbe modo di conoscere padre Carlo Manziana, cui fu sempre affezionato.
Si iscrisse alla Facoltà di Magistero presso l’Università Cattolica di Milano (che per la guerra non poté frequentare), iscrivendosi alla Fuci e considerandosi a tutti gli effetti uno studente universitario. Appena diplomato aveva subito cominciato ad insegnare, distinguendosi per la sua grande passione educativa: «Quanto mi piace fare il maestro a questo modo. Non fermarmi sulla cattedra, ma uscire, andare per le case dei miei ragazzi, passeggiare con loro, discorrere».
Nel maggio 1940 entrò, chiamato dal prof. Vittorino Chizzolini, a far parte della redazione di «Scuola italiana moderna», la rivista dell’Editrice La Scuola destinata ai maestri. All’editrice Rinaldini divenne amico e allievo prediletto di Chizzolini; partecipò così a incontri formativi – come quelli promossi dal Paedagogium o dalla Gioventù cattolica – nei quali ebbe occasione di incontrare figure eminenti del cattolicesimo italiano come Gesualdo Nosengo, Giorgio La Pira, Giuseppe Lazzati.
Nel gennaio 1943 R. fu nominato dal vescovo mons. Giacinto Tredici delegato diocesano Aspiranti di Azione cattolica, succedendo all’amico Chizzolini.
In quei mesi fu anche tra i promotori del Gruppo d’azione politica che si trasformò poi, per ragioni di prudenza, in Gruppo d’azione sociale, che aveva finalità caritative e assistenziali, tra le quali la “Messa del povero” presso la chiesa di San Giuseppe. In questo contesto R. maturò anche la sua profonda avversione al fascismo. Le stesse posizioni erano condivise in famiglia, a cominciare dal padre, dal fratello Federico, che morì a 22 anni nel lager di Mauthausen, dalla sorella Giacoma, anche lei deportata in Germania, nel campo di Kala-Tour (Weimer) da cui sarebbe tornata con la salute per sempre minata e dal fratello Luigi, poi padre della Pace.
Dopo l’8 settembre R. fu tra i primi ad impegnarsi nel movimento partigiano bresciano. Stretti contatti con cattolici e sacerdoti antifascisti, Emi – come veniva chiamato – si diede alla diffusione di stampa clandestina e contemporaneamente assolse a compiti di collegamento con i primi partigiani delle valli bresciane, industriandosi a procurare loro viveri e l’occorrente per resistere alla macchia. In quei mesi teneva un diario della sua vita. Il 12 ottobre 1943 scriveva: «Per misura di prudenza, nascondo questa sera tutti i miei diari, le mie lettere, i giornali […]. Se il Signore avrà destinato ch’io debba morire in questi tempi, sia pure, io l’accetto di buon grado».
Rimase sui monti per circa tre mesi fino alla fine di febbraio del 1944, quando, di fronte a un nuovo decreto per i renitenti, con pena di ripercussione verso le famiglie, decise di presentarsi in caserma a Brescia, dove poté seguire la messa pasquale officiata dal vescovo mons. Tredici. Sul diario scriveva: «Che riflessioni mi ispira la Pasqua, quest’anno? La Croce è più sanguinante, il Cristo più vicino ancora, ma noi siamo lontani e il Golgota non ci ha attirati a sé».
Il 20 aprile 1944 si consumava per lui la scelta definitiva di abbracciare la Resistenza. Dopo aver saputo che il loro reparto stava per essere trasferito in Germania, Emi e l’amico Aldo Lucchese abbandonarono la caserma e presero la strada dei monti: prima a Bovegno in Val Trompia e poi in Valsabbia, in una casina sotto la Corna Blacca.
Nel frattempo aveva costituito, diventandone vice-comandante, una formazione partigiana, il gruppo S4, che aveva aderito alla Brigata delle Fiamme Verdi “Giacomo Perlasca”, guidata da Ennio Doregatti (Toni). Aiutato dalle popolazioni locali, fu anche organizzatore di alcune azioni rischiose, come l’assalto alla caserma della Guardia nazionale repubblicana di Vestone, il 19 luglio 1944, che si concluse senza perdite e con un soddisfacente bottino di armi.
Alla lotta ai nazifascisti, condotta con la sua formazione, R. abbinò un costante impegno personale verso le popolazioni locali, organizzando le piccole comunità e diffondendo i princìpi dello scoutismo.
Dopo il “proclama Alexander” del 13 novembre 1944, in cui il comandante delle forze alleate in Italia annunciava la sospensione delle operazioni sulla Linea Gotica, invitando i «patrioti italiani» a cessare la loro attività, il gruppetto S4 decise di fermarsi in Val Sabbia tra Livemmo e Odeno, ospiti degli abitanti del luogo, tra i quali il parroco di Odeno, don Lorenzo Salice, la cui canonica divenne un importante luogo d’incontro per i partigiani della zona.
In quelle settimane il comandante del 40° battaglione mobile della Gnr, Ciro Di Carlo, ordinava di intensificare rastrellamenti e perlustrazioni «con pattuglie anche piccole, ma agili, decise, spregiudicate».
È in questo contesto che nella notte fra il 6 e il 7 febbraio 1945, il gruppo di Emiliano fu sorpreso casualmente a Odeno dalle forze repubblichine. R. non riuscì a sottrarsi all’arresto. Assieme ad Emi venne arrestato anche don Lorenzo: al mattino furono incolonnati verso il fondo valle, diretti al carcere di Idro.
Nei giorni seguenti R. fu percosso e ripetutamente interrogato. Ha raccontato Carla Leali, protagonista e testimone di quegli eventi: «non una sola parola uscì dalle sue labbra e chiunque l’ha visto attesta che ha sempre avuto un sorprendente aspetto di fierezza. In questi due giorni subì un vero martirio […]. E la notte precedente la sua morte, mentre sdraiato sul pavimento tentava con le mani incatenate di prendere la corona del rosario che aveva nella tasca, per il rumore che la catena faceva e che disturbava i fascisti, ricevette pugni e calci. Ciò nonostante fece tanto che poté prendere la corona e allora soltanto si acquietò». Anche una donna di Odeno ricordava: «Emi fu torturato crudelmente: [gli] avevano messo in testa anche una specie di corona di ferro tanto che dopo morto aveva dei segni di sangue come fosse stata una corona di spine».
I fascisti lo riportano nelle zone della Pertica Alta, sperando così di fargli rivelare i depositi delle armi o i nascondigli dei suoi compagni partigiani. Ma Emiliano tacque nonostante le torture.
La mattina del 10 febbraio R. fu portato fuori dell’abitato di Belprato. I fascisti, dopo averlo costretto a togliersi le scarpe, nel simulare un tentativo di fuga incitarono Emi a scappare e lo colpirono a tradimento con una raffica di mitra, abbattendolo con quattordici colpi sparati alle spalle: aveva da poco compiuto 23 anni. Recuperando il corpo, gli amici dentro la sua giubba trovarono, oltre il rosario, anche, insanguinato, il libro dell’Imitazione di Cristo.
A R. sono state intitolate strade in molti comuni del Bresciano e soprattutto alcune scuole elementari. Porta il suo nome, insieme a quello del card. Bevilacqua, anche il Collegio universitario maschile “Famiglia universitaria”, inaugurato nel 1965 e voluto dal fraterno amico Chizzolini. Gli è stata anche concessa la croce al valore militare alla memoria con la seguente motivazione: «Vice comandante di distaccamento partigiano, dopo un anno di valorosa attività veniva catturato e torturato. Condannato a morte, cadeva per la libertà della Patria. Calle Sabbia (Lombardia), 10 febbraio 1945».