Ludovico Ticchioni nacque a Mestre, in provincia di Venezia, il 16 aprile del 1927 da Giancarlo e Maria Prevedella. La famiglia aveva antiche origini aristocratiche e una forte tradizione monarchica che influenzò notevolmente la formazione di T. e delle sue tre sorelle. Il padre, che venne trasferito a Ferrara nel corso del 1938, fu comandante del reggimento lancieri Firenze con il grado di colonnello e trasmise ai suoi figli il rispetto per la corona e per casa Savoia. La madre, invece, educò i ragazzi in un ambiente imperniato di profonda religiosità e basato sui valori del cattolicesimo tanto che, nella nuova città dove si trasferirono, T. prese parte alle attività del locale circolo Giac, che frequentò con assiduità e serietà.
Compì gli studi elementari e medi nella sua città natale e, dopo essersi iscritto al liceo classico Ludovico Ariosto di Ferrara, nel corso del 1943 fece domanda per essere ammesso al corso per ufficiali di cavalleria, vedendosi però scartato a causa di un «notevole difetto visivo e disturbo auricolare» che non gli permisero di passare la visita medica. Tra la corrispondenza con i familiari è possibile constatare la forte delusione che lo colse alla comunicazione dell’esito negativo e del relativo giudizio di inabilità al servizio militare. Per questo motivo, nel giugno dello stesso anno, il padre tentò di riaprire la pratica di richiesta di arruolamento nell’Accademia di Modena ma anche questo tentativo, nonostante l’interessamento del ministro della guerra Antonio Sorice, fallì per il parere ancora una volta negativo dell’ospedale militare di Bologna.
Nel periodo in cui l’Italia entrò in una fase di grandissima incertezza sul piano politico e sui diversi fronti di guerra, T. cominciò a scrivere un diario al quale diede il significativo titolo di Come la penso io…Raccolte di mie considerazioni sul momento attuale e sulla mia vita. In questo taccuino ebbe modo di appuntare diverse riflessioni sullo sviluppo del quadro bellico nazionale e internazionale, provando anche a esaminare le possibilità che la fine del secondo conflitto mondiale avrebbe aperto, pur invocando a più riprese la sopravvivenza del governo monarchico e auspicando il proseguo della dinastia Savoia. Non a caso, sul dorso del libretto vergò due frasi attribuite a Metastasio che ben inquadravano il suo pensiero: «La patria è un nume a cui sacrificar tutto è concesso» e «Bello è il perir nelle onorate imprese».
Alla notizia della caduta del regime fascista, ebbe modo di sottolineare il proprio apprezzamento per la scelta di affidare il destino della nazione nelle mani del maresciallo Badoglio, da lui ritenuto il solo a poter guidare l’Italia in un momento tanto difficile. Ben diversi furono invece i suoi giudizi sugli eventi che portarono alla nascita della Rsi e alla successiva nomina di Rodolfo Graziani alla carica di ministro della Difesa di questa nuova entità politica.
Nel febbraio del 1944, insieme a sua madre e alle tre sorelle, il giovane fu costretto a sfollare in località Ponte Giglioli, una frazione di Serravalle, dove furono ospitati nella villa dei conti Giglioli. Il padre, invece, rinnovò il desiderio di servire la patria e prese il proprio posto nel Corpo italiano di liberazione con la qualifica di comandante del Raggruppamento speciale Granatieri di Sardegna, formazione che si scontrò con i tedeschi nei giorni appena successivi alla firma dell’armistizio di Cassibile e successivamente inquadrata nel Gruppo di combattimento Friuli. Anche T. rimase fedele al proprio ideale di lealtà verso la monarchia, ribadendo il suo pensiero allorché scrisse: «Il mio animo è per Casa Savoia ed aspetterò con fiducia che Essa chiami a Lei anche me come ora chiama a Lei tutti gli Italiani. Io non posso che calcare le onorate tracce di mio Padre che ora combatte per essa e per essa darebbe tutto».
Al compimento del diciassettesimo anno di età, T. decise di entrare a far parte della Resistenza nella zona di Berra, prendendo contatti con un ex tenente ormai in congedo, il maestro Natale Simioni «Jogres», che lo avvicinò all’operato delle bande di partigiani operanti nel territorio e lo indusse a inserirsi tra le fila del nuovo Gap di Serravalle, una frazione del comune di Berra, da poco costituitosi alla guida di Labindo Bisi «Mago» e Angelo Previati. Tra le pagine del suo diario, T. appuntò al 18 agosto 1944 di aver avuto un ultimo e risolutorio incontro con un «tenente in congedo» che stava tentando di organizzare una compagnia dedita ad «atti di sabotaggio». È probabilmente a questa data che ci si deve riferire per indicare l’inizio dell’esperienza partigiana del giovane visto che, poco più avanti, ebbe modo di scrivere: «Finalmente ora anche io partecipo alla cacciata dei tedeschi dall’Italia». Di questa sua partecipazione alla lotta di liberazione, in fondo, aveva già delineato i tratti caratteristici, affermando, tra l’altro, di essere disposto a prendere le armi per difendere le proprie idee, ma facendo di tutto per non «soffocare nel sangue le idee a noi contrarie» e, soprattutto, cercando di evitare «che fosse sparso ancora del sangue fra fratelli, vendette e odii non vi dovrebbero essere».
Il 30 agosto del 1944, assunto il nome di battaglia di «Tredicino», entrò a far parte della 35ª Brigata Bruno Rizzieri, che era impegnata nel settore di Serravalle e che venne presto conosciuta come il «Gruppo del Gatto», dal nome di battaglia del suo comandante Olao Pivari, ex sergente della Rsi. Ecco come T., il giorno successivo, raccontò l’entrata nella formazione: «Sono andato in un posto non molto lontano da qui, ove sapevo esservi dei soldati della repubblica che erano fuggiti dal loro battaglione per vedere se erano in possesso di armi e munizioni e poterli raccogliere per la formazione di una compagnia in questa zona, ma con mia grande gioia li ho trovati già organizzati. Chi comanda qui è un sergente maggiore, un ragazzo sulla trentina, molto in gamba e pieno di entusiasmo giovanile». Nonostante un’attenta organizzazione, dopo l’uccisione di due militi della Rsi ad Ariano Ferrarese e l’attentato alla caserma della Gnr di Berragli, gli uomini di questa banda vennero individuati e posti sotto il sempre più pressante controllo del distaccamento di Codigoro della Brigata nera Ghisellini, comandata da Ugo Januzzi, che riuscì a raccogliere non solo notizie e informazioni su quanti componevano le fila del movimento partigiano nella zona, ma anche sull’attività e la consistenza dei gruppi Gap che vi operavano.
Il 27 dicembre del 1944, mentre si trovava in una breve sosta a casa dovuta al momentaneo scioglimento della sua banda, T. venne raggiunto da una pattuglia di militi della Rsi che, su segnalazione di un delatore, lo pose in stato di arresto. Condotto nel carcere mandamentale di Codigoro, rimase in prigionia per i successivi quarantanove giorni, durante i quali venne brutalmente torturato e costretto a subire pesanti privazioni per indurlo a rivelare informazioni sulla posizione, l’armamento e i nominativi dei membri del «Gruppo del Gatto». Il timore di perdere la vita durante i durissimi interrogatori lo portarono a segnare sul proprio diario, alla giornata del 17 gennaio, l’ultimo pensiero su quanto stava per accadergli: «Sono sicuro che oggi sarà il mio ultimo giorno di vita. Non mi importa di morire». Asserragliato dietro a un ostinato silenzio, rifiutando persino di aver salva la vita se avesse rinnegato i propri ideali di fedeltà al re e si fosse arruolato nell’esercito della Rsi, T. venne condannato a morte e fucilato insieme a due compagni il 14 febbraio 1945 nella piazza centrale di Codigoro dagli uomini comandati da Ugo Jannuzzi, che lo trucidarono a colpi di fucile.
Alla memoria di T. venne decretata la medaglia d’oro al valor militare alla memoria con la qualifica di partigiano combattente con la seguente motivazione: «Sedicenne [sic], di nobili sentimenti patriottici, si arruolava volontariamente in una formazione partigiana dedicandosi alla causa della Libertà con la passione e l’ardimento dei suoi giovani anni. Arrestato per delazione, subì 49 giorni di duro carcere sopportando con stoica fierezza, torture e sevizie, perché denunziasse i compagni di lotta; ma le sue labbra restarono chiuse dal suggello dell’onore e della fedeltà. Né valse la promessa di avere salva la vita, se avesse abiurato la sua fede e preferì la morte all’ignominia del tradimento. Purissimo apostolo dell’amore alla Patria, cadde barbaramente trucidato e la sua figura è assurta luminosa tra i martiri della nuova Italia. Codigoro, 14 febbraio 1945».