Antonio Gabana nacque a Padenghe sul Garda, piccolo comune in provincia di Brescia, il 25 maggio del 1928 da Eudes e Maria Gambarin, secondo di tre figli. La sua infanzia fu caratterizzata da diversi spostamenti dovuti alle difficili condizioni finanziarie della famiglia. Dopo aver atteso agli studi ginnasiali presso il collegio salesiano di Mogliano Veneto, nei primi mesi del 1942, a causa della prematura morte del padre, G. fu costretto a tornare a casa per aiutare la madre che doveva mantenere i tre figli con il solo stipendio di insegnante elementare. Viste le ulteriori problematiche economiche dovute agli eventi bellici, la famiglia, decise di trasferirsi a Semonzo del Grappa, in provincia di Padova, per essere più vicino ai parenti. Fu in questa località che, dopo essersi avvicinato agli ambienti della parrocchia, il giovane ebbe modo di iscriversi e prendere parte alle attività del locale circolo della Giac. Nel corso dell’estate del 1943, grazie all’interessamento di uno zio materno, venne assunto per far pratica in un ufficio del centro di Padova, potendo così contribuire fattivamente alle finanze familiari.
Fu in questa nuova occupazione che G. venne raggiunto dalla notizia della caduta del regime fascista e, successivamente, da quella della firma dell’armistizio di Cassibile. Interessatosi fin da subito allo sviluppo del movimento resistenziale patavino, il ragazzo fu presto avvicinato da un vecchio amico di famiglia attivo tra le formazioni della Resistenza nella zona di Venezia. Ebbe così modo di venire a conoscenza dell’operato dei partigiani, in particolar modo delle bande attive nella zona di San Stino di Livenza, che, da poco organizzatisi in maniera organica, si opponevano all’occupazione nazifascista con azioni di guerriglia e sabotaggio. Nell’estate del 1944, prima di partire per raggiungere la sua formazione, decise di lasciare una lettera alla madre che si trovava da poco sfollata con la famiglia a Murelle di Villanova. Nella missiva si premurava di spiegarle le motivazioni della sua decisione e, immaginando le possibili reazioni delle autorità nazifasciste alla notizia del suo impegno tra i partigiani, si raccomandava di non cercarlo e di non piangere la sua eventuale prematura scomparsa. Uguale scelta venne fatta dal fratello Augusto che, inseritosi tra le fila della brigata Guido Negri, ebbe modo di condividere la lotta contro l’occupante a fianco dell’amico Antonio Ceron, anche lui socio attivo di Azione cattolica e futura medaglia d’oro al valor militare.
Resa dunque ufficiale la sua decisione, G. si impegnò nella Resistenza presentandosi come volontario al comando del battaglione Boatto, inquadrato nella brigata Pellegrini. Assunto il nome di battaglia di «Lucio», il ragazzo venne incaricato di fungere da staffetta tra i diversi reparti partigiani e fu sovente incaricato anche per delicate missioni di collegamento con i comandi militari alleati. Il 2 aprile del 1945, mentre si trovava a San Stino di Livenza per assicurarsi che alcuni importanti messaggi giungessero regolarmente a destinazione senza finire nelle mani della polizia fascista, fu colpito da una scheggia proveniente dall’improvvisa esplosione di una bomba che era stata lanciata durante la notte dall’aviazione alleata. Rimasto agonizzate per diverso tempo, cercò in ogni modo di occultare le missive affidatigli che, infatti, vennero ritrovate dal parroco accorso sul posto totalmente intrise del suo sangue. Dell’episodio che lo condusse alla morte ne fece una rapida sintesi il rapporto stilato dal comando della brigata Pellegrini: «La mattina del 2 c.m. alle ore 8.30, mentre il compagno Lucio, addetto al servizio staffetta, percorreva la strada di San Stino di Livenza e precisamente nei pressi della stazione, per portare a destinazione una missione, veniva colpito alle gambe ed al petto da una esplosione di bomba, lanciata da aerei durante la notte. Dopo il sinistro il compagno Lucio sopravvisse solo un’ora. Si cita il comportamento di detto compagno che, in tali condizioni, pensò per prima cosa di mettere in salvo, nonostante fossero inzuppate di sangue, le due lettere che doveva portare e fare pervenire in mano dei compagni».