Stefano Ambroggio nacque il 16 gennaio del 1919 nella piccola frazione di San Lorenzo del comune di Genola, in provincia di Cuneo, da Luigi e Teresa Prato, ultimo di sei fratelli. Crebbe in un ambiente familiare impregnato di profonda religiosità e fin da giovanissimo prese parte alle attività dell’Azione cattolica. I genitori assicuravano il sostentamento alla numerosa famiglia lavorando alcuni appezzamenti di terra tenuti a mezzadria nella zona di Genola, nella vicina località Santa Maria. Desideroso di contribuire alle modeste finanze familiari, dopo gli studi elementari e medi A. venne assunto presso una piccola sartoria locale e a quel lavoro si dedicò per tutto il resto della vita. Nel corso del tempo ebbe modo di esprimere un sempre più deciso impegno tra le fila della Giac, tanto che l’assistente diocesano del ramo giovanile don Giorgio Canale arrivò a descriverlo come un «militante attivo e convinto» che diede un fondamentale contributo alla vita dell’associazione quando, «partiti i migliori per la guerra, la Gioventù Cattolica aveva bisogno di dirigenti nuovi e coraggiosi». Sempre nella sua testimonianza il sacerdote fece memoria delle «lunghe serate passate a fianco a fianco per i tesseramenti, per tenere la corrispondenza con i soci al fronte, per tenere viva un’attività che gravava sulle spalle di pochi». Distintosi per serietà e dedizione, nel 1942 venne nominato presidente diocesano della Giac.
Richiamato sotto le armi per assolvere gli obblighi di leva, venne immediatamente riformato alla visita a causa di un grave problema alla vista, riuscendo quindi a evitare anche il reclutamento nel Regio esercito nel corso della Seconda guerra mondiale. Fu dunque nella sua occupazione lavorativa ordinaria che accolse la notizia della caduta del regime fascista e, successivamente, quella della ratifica dell’armistizio di Cassibile che sancì l’inizio dell’occupazione di gran parte dell’Italia centro-settentrionale. Pur non costretto a dover scegliere tra la clandestinità o l’adesione alla Rsi, in quanto dichiarato non idoneo anche successivamente ai bandi emanati da Graziani, nell’estate del 1944 decise comunque di voler avversare i nazifascisti e di unirsi alla brigata partigiana Val Pesio, operante nell’omonima valle. Assunto il nome di battaglia di «Morris», nei primi mesi di attività si distinse a più riprese per una certa dose di audacia in combattimento e per la sua capacità di coordinare le azioni di guerriglia e di sabotaggio.
Il 25 aprile del 1945, quando erano già iniziate le grandi operazioni che avrebbero portato alla definitiva liberazione del paese dall’occupazione nazifascista, A. si recò insieme a un compagno a Cuneo per ricevere ordini direttamente dal comando del locale Cln e per organizzare la formazione secondo le direttive centrali. Giunti nel piccolo comune di Margarita, i due partigiani si imbatterono in un manipolo di militi del raggruppamento Cacciatori degli Appennini di ritorno da una breve operazione di rastrellamento. Individuato immediatamente, il giovane non riuscì a fuggire e venne catturato mentre tentava di raggiungere una bicicletta per darsi alla fuga. Condotto a Trinità, fu rinchiuso nell’edificio scolastico del luogo che fungeva da luogo di detenzione temporaneo per i prigionieri della Rsi. Sottoposto a pesanti interrogatori, offese e sevizie di ogni genere, nel tentativo di fargli rivelare la sua identità e informazioni utili all’individuazione della sua cellula partigiana, il giovane si trincerò dietro un ostinato silenzio che non volle rompere neanche davanti alle lusinghe di aver salva la vita in cambio dei nomi dei suoi compagni.
La sua prigionia durò fino al 28 aprile successivo visto che, anche se i nazifascisti dovettero lasciare il paese in tutta fretta per procedere verso nord in una scomposta ritirata, alcuni militi repubblichini della brigata Muti decisero di condurlo a forza con loro nel caso fosse necessitato scambiare degli ostaggi. Duramente percosso e costretto a una lunga marcia dopo giorni di digiuno, A. non riuscì a tenere il passo della colonna per molto tempo e, nella notte del 29 aprile, venne fucilato sulla strada Loreto-Salmour nei pressi di Fossano e lasciato insepolto.