Giacomo Cappellini nacque a Cerveno, piccolo paese in provincia di Brescia, il 24 gennaio del 1909 da Antonio Capellini e Domenica Rebuffoni. Il padre, contadino, era dedito al lavoro nei campi di sua proprietà, svolgendo saltuariamente anche la professione di assicuratore, mentre la madre era un’insegnante nelle scuole elementari del paese in cui vivevano. Fu una famiglia numerosa: C. infatti fu il secondo di cinque figli.
Trascorse gli anni giovanili nel paese natale, dove frequentò la scuola elementare. Visto il buon rendimento, i genitori decisero, seppur dovendosi sobbarcare una spesa non indifferente per le finanze familiari, di fargli proseguire la formazione scolastica e lo iscrissero al liceo di Castelnuovo d’Asti tenuto dai salesiani, dove attese agli studi ginnasiali. Terminato questo periodo, si spostò alle scuole professionali dei salesiani di S. Benigno Canavese, ottenendo infine il diploma di compositore tipografico. Fu durante la sua permanenza all’istituto salesiano che prese parte alle attività dell’associazione interna «Don Bosco».
Terminato il suo percorso di studi, trovò occupazione come tipografo nella cittadina di Edolo, presso la bottega artigiana di Francesco Zanini. Nel corso del mese di maggio del 1929, dovette abbandonare il suo posto di lavoro per rispondere alla chiamata del servizio di leva e, arruolato nel Regio esercito, venne spedito a Roma, dove rimase fino al giugno del 1930. Trascorrendo questo periodo in forza al 3° Centro chimico della capitale, ebbe la possibilità di iscriversi ad alcuni corsi di specializzazione tra cui la scuola di stenografia.
Nel 1930, terminato il periodo sotto le armi, tornò a Cerveno. Fu nel corso dei mesi trascorsi nel paese natale, riscontrando grande difficoltà nel trovare un nuovo lavoro, che decise di intraprendere il percorso per l’abilitazione magistrale. Lo studio per sostenere l’esame si rivelò più duro del previsto, anche a causa della sua condizione di autodidatta. Nonostante questo, il 27 luglio del 1935, C. riuscì ad acquisire il diploma e a ottenere la qualifica di maestro.
Dopo poco, si vide assegnata una cattedra. Nel biennio 1935-1937, infatti, fu attivo come supplente nelle scuole di Breno, Bienno e Berzo Inferiore. Nel 1937 poté partecipare agli esami per il posto di ruolo. Nello stesso anno, il 1° ottobre, venne richiamato per il servizio militare e inviato in Libia. Solo il 9 aprile 1938, mentre si trovava a Bengasi con il suo reparto, seppe della buona riuscita dell’esame scritto e di dover quindi sostenere la selezione orale. Durante un periodo di licenza riuscì dunque a far ritorno a Milano dove ebbe modo di sostenere l’ultima selezione e, tornato in Libia, venne raggiunto dalla notizia dell’esito positivo del concorso.
Rientrato in Italia e terminato il suo periodo di leva, intraprese il percorso da docente alle scuole elementari. Dopo alcuni incarichi di supplenza a Paspardo e Bienno, ottenne il posto di ruolo nella cittadina di Breno dove, il 16 ottobre del 1938, prese servizio effettivo. Anche dopo lo scoppio della II Guerra mondiale e l’ingresso dell’Italia nel conflitto, C. mantenne il suo posto di insegnante e, il 17 ottobre del 1942, venne promosso titolare ordinario mantenendo la cattedra a Breno. Nella relazione dell’ispettore scolastico Lino Donati, che si occupò della proposta a ordinario di C., datata 3 febbraio 1942, venne evidenziato il cursus honorum del candidato in seno alle istituzioni del regime. Dopo aver anticipato come il maestro fosse «iscritto al P.N.F. dal 1933, è iscritto all’A.F.S. dal 1936», passò a evidenziare le sue cariche di «vice segretario del fascio di Ceto-Cerveno, fiduciario sportivo della G.I.L. presso il fascio di Breno, comandante dei Balilla di Breno, sottotenente del Regio Esercito», quindi il suo percorso professionale come «insegnante di educazione fisica alle Scuole di avviamento e alla scuola Primaria di Breno dal 1930 al 1940». Al termine del documento, si specificava il favorevole parere alla promozione di C. per la sua «condotta morale e civile», definita «ottima».
Il 15 aprile 1943, nel pieno dell’anno scolastico, venne richiamato per la terza volta sotto le armi, nonostante fosse stato precedentemente collocato in congedo per riforma. Il 16 aprile fu dunque costretto a ripresentarsi a Roma, dove venne assegnato nuovamente al Centro chimico e, dopo la caduta del regime il 25 luglio 1943, venne trasferito con la stessa occupazione a Verona.
Fu in questa nuova sede che C. venne raggiunto dalla notizia della firma dell’armistizio di Cassibile. Nei giorni successivi l’8 settembre, mentre la sua compagnia cominciò a disgregarsi, decise di tornare nel paese natale per non essere catturato dai tedeschi ed evitare l’internamento in Germania.
Tornato dunque a casa nel periodo in cui si dava avvio all’anno scolastico del 1943, pur comparendo nell’organigramma della scuola elementare di Bienno, decise di non riprendere servizio come insegnante. Il rifiuto di tornare al suo posto di lavoro causò l’inizio di una indagine investigativa da parte del provveditore per valutare le cause della sua scelta. Pur sostenuto dal direttore didattico della sua zona, Ferdinando Ridoli, il quale più volte coprì le sue assenze, C. venne dichiarato dimissionario a causa della sua latitanza e vennero sospesi i pagamenti a lui ascritti con decorrenza dal 1° ottobre 1943.
Fu dunque proprio nel periodo appena successivo all’annuncio dell’armistizio che C. cominciò a intessere contatti e relazioni con il movimento resistenziale che andava formandosi in Val Camonica. Ben presto decise di entrare nelle fila delle Fiamme Verdi e assunse il coordinamento delle forze partigiane nella zona di Cerveno. Dopo un iniziale periodo di consolidamento del movimento, in cui si adoperò per organizzare diverse bande di giovani, nel corso della metà di agosto del 1944 il suo gruppo, denominato «C8», venne inserito nella brigata «Ferruccio Lorenzini», inquadrata nella divisione Fiamme Verdi «Tito Speri».
A lungo la sua formazione fu attiva in azioni di guerriglia contro le forze nazifasciste presenti nel territorio. Una delle operazioni più pericolose fu l’operazione da lui condotta della notte tra il 28 e il 29 giugno del 1944, quando, per impossessarsi di armi, munizioni, viveri ed equipaggiamento, venne assalito il presidio della Gnr di Capodimonte. Diverse furono comunque le operazioni dei suoi uomini contro pattuglie e postazioni di truppe nemiche. All’azione di C. si iscrisse anche la promozione della seconda zona franca della Val Camonica che, promettendo libero transito ai soldati tedeschi armati in quella zona, assicurava ai partigiani e ai civili l’impegno dei militari di non accendere scontri a fuoco o condurre rappresaglie. Nel patto rimase comunque piena libertà di azione delle formazioni partigiane nei confronti dei militi fascisti.
Il 21 gennaio 1945, mentre si trovava in missione di ricognizione, la formazione di C. venne sorpresa nei pressi di Villa di Lozio da un duro rastrellamento guidato da forze della Rsi. Ingaggiata una dura battaglia, il reparto venne impegnato per diverse ore e, nel corso del combattimento, C. fu gravemente ferito e non poté continuare il ripiegamento con i suoi uomini.
Catturato e posto in stato di arresto, venne condotto nelle carceri del castello di Brescia, dove rimase per circa due mesi. Nel corso della detenzione, dopo essere stato curato dalle ferite riportate nello scontro, fu spostato in una cella del torrione della Mirabella, del quale egli stesso, scrivendo ai familiari in una delle sue ultime lettere, diede questa descrizione: «Non è molto brutta e nemmeno eccessivamente buia, ma l’impressione che produce nel dovervi entrare per la prima volta attraverso un andito buio, il vederla assicurata da due robuste porte ferrate, la forma quasi circolare, il soffitto a cupola, grossi anelli di ferro infissi nel basso delle pareti, una piccola e bassa finestra con doppia inferriata, per guardare dalla quale bisogna stare ginocchioni, produce nel malcapitato che per la prima volta ne varca la soglia, l’impressione opprimente di chi entra in una tomba». Sottoposto a diversi interrogatori e vittima di torture e sevizie, non rivelò nulla della sua attività in seno al movimento resistenziale, rifiutando fino alla fine di rivelare nomi e composizioni delle bande operanti nel territorio.
Visto l’ostinato silenzio nel quale si trincerò, il 22 marzo successivo C. fu sottoposto a processo dal tribunale militare regionale di guerra e, ritenuto uno dei massimi esponenti della Resistenza in Val Camonica, venne emessa nei suoi confronti la sentenza di condanna a morte. Nel corso dei giorni che lo separarono dall’esecuzione, pregò di poter essere assistito spiritualmente da un sacerdote al quale espresse il proprio rammarico per la condanna ricevuta e per il «modo con cui era stata formulata», visto che, aggiunse, «non sono un assassino né un grassatore. Non ho terrorizzato nessuno e le popolazioni della valle mi vogliono bene». Al prete richiese il necessario per scrivere alcune lettere ai genitori, ai fratelli e alla fidanzata, lasciando poi a lui il compito di consegnarle. Tra le altre cose, spiegò la sua scelta resistenziale, scrivendo: «muoio cosciente di aver compiuto il mio dovere sino all’ultimo e senza alcun rimorso di coscienza circa il mio modo d’agire, tutto dedito a un ideale: la Patria».
Due giorni dopo C. venne prelevato dalla sua cella e condotto nel lato nord del castello per l’esecuzione della sentenza. Posto dinanzi al plotone di militi della Gnr, alla presenza del sacerdote che aveva seguito i suoi ultimi giorni di vita, C. accettò di essere bendato ma si rifiutò fermamente di mettersi seduto. All’ordine dell’ufficiale gridò «Viva l’Italia», prima che una scarica di mitra lo lasciasse esanime a terra.
La Presidenza del Consiglio dei ministri, attraverso decreto del 9 ottobre 1946, concesse alla memoria di C. la medaglia d’oro al valor militare con la qualifica di soldato aggregato al Centro chimico militare e partigiano combattente con la seguente motivazione «Modesto maestro elementare in un villaggio valligiano, all’inizio della lotta contro l’oppressore nazifascista, abbandonò la sua missione per organizzare una delle prime formazioni partigiane di Val Camonica, con cui per 17 mesi divise i rischi e le durezze della lotta in un’imboscata tesa dal nemico, fece scudo di se stesso ad un suo partigiano attirando su di sé la reazione avversaria. Ferito al viso e ad una spalla, cessò di far fuoco solo quando la sua arma divenne inerme per inceppamento; catturato, sopportò per due mesi durissimo carcere, continui martiri e inumane sevizie, chiuso nel suo sdegnoso silenzio, senza nulla svelare che potesse danneggiare la causa per cui combatteva. Fu sordo alle lusinghe di aver salva la vita se avesse indotto i suoi uomini alla resa e ad ogni nuova tortura che il nemico rabbioso gli infliggeva, rispondeva sorridendo che i partigiani non sono dei vili. Stroncato dalle sevizie barbaramente inflittegli, esalava l’ultimo respiro gridando: “Viva l’Italia!”. Val di Lozio, 21 gennaio 1945».