Giorgio Coppa nacque a Parma il 3 febbraio del 1924 da Domenico e Teresa Avanza, ultimo di quattro fratelli. Cresciuto in un ambiente familiare imperniato su una profonda religiosità, dopo aver atteso agli studi elementari e medi, si iscrisse alle scuole superiori e, in questo periodo, decise di iscriversi al circolo Giac attivo nella parrocchia della Santissima Trinità della città emiliana. Nel corso del tempo, visto il costante impegno e la dedizione espressi nelle attività associative, venne designato nel ruolo di delegato Aspiranti.
Nell’estate del 1943, allora diciannovenne, venne richiamato sotto le armi per assolvere gli obblighi di leva. Nel suo breve periodo di formazione trascorso a Cremona, C. ebbe modo di criticare duramente l’ambiente militare nel quale si trovò a operare, ritenendolo particolarmente deleterio dal punto di vista spirituale. Il 13 luglio nel suo diario personale scrisse: «Catastrofiche le mie prime impressioni sul nuovo ambiente: immoralità obbrobriosa e bestemmie atroci. […] Poi getto le carte in tavola: trovo alcuni compagni di A.C., che troppo si lasciano influire dall’ambiente. In una discussione sulla purezza, manifesto le mie idee in modo aperto: trovo aspro terreno contrario. Possibile che la corsa al piacere abbia portato dei giovani di vent’anni ad una simile grettezza?». Per sopperire a questa mancanza di moralità tra i suoi commilitoni, si impegnò per organizzare un gruppo di aderenti all’Azione cattolica che si ponesse lo scopo di svolgere una seppur minima opera di apostolato: «Con blocco e matita alla mano – scriveva il 4 settembre – sono andato alla ricerca dei giovani di A.C. della mia batteria, che sono ben 35. Con essi inizierò una vera azione apostolica. Domani tutti ci accosteremo alla Santa Eucarestia, durante la nostra Messa».
Fu in questo contesto che C. venne raggiunto dalla notizia della ratifica dell’armistizio di Cassibile che, viste le modalità con cui venne comunicato dai comandi del Regio esercito, lasciò drammaticamente aperto il nodo circa i rapporti da tenere con l’ex alleato germanico presente in forze nel territorio della penisola. Vista la mancanza di direttive, il suo reparto decise di tentare una seppur effimera resistenza per non dover sottostare all’intimazione di resa fatta pervenire dalle truppe germaniche. Nella mattinata del 9 settembre, però, vista la disparità tra le forze in campo, i militari italiani furono costretti ad arrendersi e a consegnare le armi ai tedeschi. L’unità di C. venne dunque catturata e, dopo una breve sosta a Mantova, deportata in Germania verso il campo di lavoro Stalag III C di Kustrin dove arrivò il 22 settembre.
Assegnatogli il numero di matricola 41595, C. conobbe la durezza della vita del campo ed ebbe modo di descriverla ampiamente nel diario di prigionia che teneva quasi giornalmente. Dopo aver rifiutato a più riprese la proposta di aderire al nuovo esercito della Rsi con la promessa di far immediatamente ritorno in Italia, solo il 19 agosto del 1944, come scritto tra i suoi appunti, il giovane fu costretto ad abbandonare il suo grado militare per passare tra i «liberi lavoratori civili». Colpito molto negativamente dall’obbligo al quale dovette sottostare, egli definì nel suo diario la decisione come impostagli «con armi in pugno» e descrisse il momento della comunicazione pervenutagli: «Siamo, noi 37 prigionieri italiani, schierati nel cortile del nostro Lager. Giunge un sottotenente tedesco, con interprete italiano e ci rivolge l’invito di passare volontariamente civili. Rifiuto generale. Seconda offerta pure decisamente respinta. Nessuno di noi vuole lasciare il grigioverde e abbandonare il nostro stato di Prigionieri a quelli di “Lavoratore libero”. Il sangue versato dai nostri fratelli, che da Montecassino su su lungo tutto il fronte vendicarono l’onore d’Italia, gli stenti e le fatiche dei valorosi “partigiani”, il nostro cuore di italiani e di soldati non possono permetterci questo. Ma che fare contro la forza? Si giunge al punto di minacciare di morte chi non firmerà l’apposito modulo. Così fummo costretti a porre tutti la firma richiesta. Fui tra gli ultimi a firmare e, guardandoci in faccia, muti, l’uno con l’altro, per la prima volta ci accorgemmo che una lacrima, nascosta e soppressa, bagnava il nostro volto». Il passaggio allo stato di civile lavoratore, comunque, migliorò notevolmente le condizioni di vita all’interno del campo e C. non mancò di sottolinearlo a più riprese tra i suoi appunti.
Il 23 aprile del 1945 il campo fu abbandonato dalle truppe tedesche in rapida fuga per timore dell’avanzata degli alleati. Così C. descrisse quelle difficili giornate: «La nostra forza è sempre al completo: 35 uomini, 2 sottufficiali, 1 ufficiale. […] I bagagli sono tutti preparati: tutti indossano il vecchio grigioverde, provato ormai dalle fatiche di lunghi 20 mesi; il piastrino della prigionia è posto in vista, ancora di salvezza e segno di riconoscimento». Molto interessanti risultano anche le sue riflessioni sui carcerieri in fuga: «Colonne interminabili di soldati tedeschi continuano a ritirarsi. Ma dov’è l’esercito che dominò in mille e mille battaglie? Ormai è la rotta, il disordine e la fame. Soldati che da due, tre giorni non mangiano. Chiedono a noi cibo e ristoro! Darlo, non darlo? E la fame che noi abbiamo sofferto? E le centinaia dei nostri fratelli morti nei campi di concentramento? Avere pietà per questa gente senza cuore? Ma la bontà del cuore ha il sopravvento (non è forse vero che la miglior vendetta è il perdono?). E si porge loro quel poco di ristoro che ci è possibile dare (noi, prigionieri…)».
Il viaggio di ritorno fu particolarmente complicato perché caratterizzato da diverse tappe e dalle sistemazioni più varie. Dopo aver lasciato il campo, il 25 agosto partì con i suoi compagni da Lückenwalde, quindi passò da Planen, Schonberg, Hof, Bamberg, Fürth, Norimberga, Monaco, Innsbruck, quindi a Bolzano. Da quest’ultima destinazione, infine, il 1° settembre successivo raggiunse finalmente Parma.
Tornato dalla prigionia e recuperata la propria salute fisica, C. volle terminare il proprio percorso scolastico che era stato costretto a interrompere a causa della guerra. Ottenuto il diploma da geometra, venne assunto dalla Banca commerciale italiana. Nel 1951, inoltre, convolò a nozze con Anna Canali. Grande impegno confermò nella vita dell’associazione, partecipando alle attività della locale Azione cattolica e vedendosi nominato, già nel 1946, consultore regionale Aspiranti per l’Emilia. Nel 1953 fu chiamato dall’allora vescovo Evasio Colli ad assumere la carica di presidente diocesano, responsabilità che mantenne ininterrottamente fino al 1964, e fu al contempo tra i fondatori della locale sezione del Csi, di cui fu ugualmente primo presidente.
Dopo una lunga malattia, la parabola della sua vita ebbe termine a Parma il 3 agosto del 1984, all’età di sessant’anni.