Silvio Favro nacque a Susa, in provincia di Torino, il 2 ottobre del 1922 da Onorato e Giuseppina Canova. Trascorsa la sua infanzia nel paese natale, dove attese agli studi medi e superiori, nel corso del tempo ebbe modo di avvicinarsi agli ambienti dell’associazionismo cattolico e, quindi, di iscriversi al circolo Giac presente a Susa, venendo peraltro nominato delegato diocesano per le attività ricreative. Terminato il percorso scolastico, venne richiamato sotto le armi per assolvere gli obblighi di leva nel Regio esercito. Dopo un breve periodo di formazione militare, fu assegnato come soldato al reparto artiglieria alpina del distretto militare di Torino.
Fu in questa occupazione che il giovane ricevette la notizia della caduta del regime fascista e, successivamente, dovette assistere all’inizio delle operazioni che portarono i reparti tedeschi a occupare buona parte dell’Italia centrale e settentrionale e alla nascita della Repubblica sociale italiana. Constatata la durezza dell’occupazione della Wehrmacht, F. decise di prendere immediati contatti con il movimento resistenziale che andava organizzandosi nel Piemonte. Assunto il nome di battaglia di «Silvio», si inserì già nei giorni successivi all’8 settembre tra le fila della IV divisione Gl Stellina, operante principalmente in provincia di Susa e nella Val Chisone, in cui militò fino al 1° marzo 1944.
Richiamato da uno dei bandi di reclutamento emessi dal generale Graziani per la Rsi, ai primi di marzo si presentò per essere arruolato in un reparto di artiglieria antiaerea a Padova, dove militò per circa un mese. Il 7 aprile, infatti, decise di abbandonare il posto e, dichiarato disertore dell’esercito repubblichino, due giorni dopo raggiunse una formazione partigiana operante nel territorio patavino. Dopo aver partecipato a diverse operazioni di sabotaggio e guerriglia, i primi giorni di maggio venne catturato e, riconosciuto come disertore e partigiano, fu condotto nelle carceri di Padova per essere interrogato. Sottoposto a innumerevoli torture e sevizie allo scopo di fargli rivelare informazioni utili a individuare i responsabili del movimento resistenziale attivo nel territorio, F. si trincerò dietro un ostinato silenzio che mantenne per i successivi quarantacinque giorni. Convinti di non potergli estorcere alcuna rivelazione utile al loro obiettivo, i nazifascisti lo condannarono a morte.
Il 17 giugno, condotto davanti al plotone di esecuzione, rifiutò a più riprese di essere bendato e legato al palo e, prima di essere raggiunto dalla scarica di mitra, gridò: «Viva l’Italia». Nelle ore precedenti alla fucilazione era riuscito a scrivere alcune lettere da spedire ai suoi parenti. La prima, diretta alle persone più care a cui sentiva di dover comunicare la propria morte ormai prossima, includeva anche alcune righe per l’assistente del suo circolo d’Ac: «Padova, 17 giugno 1944. Papà, Mamma, Pier Giorgio. Negli ultimi istanti della mia povera vita rivolgo il mio pensiero a voi, a voi che tanto ho amato e che mi volevate bene. Voi certamente soffrirete e anche molto, ma vi posso assicurare che io soffro assai più di quello che soffriste voi ad abbandonarmi perché so del vuoto che lascerà nella nostra casa; tuttavia, come io ho avuto la forza di resistere in questi quarantacinque giorni di carcere, così dovete trovarla anche voi. Non voglio che si parli di vendette. Il Signore ha perdonato a coloro che lo crocifissero, perché non dovrei perdonare io a coloro che mi uccidono? Quindi pregate per me che io dal Cielo pregherò per voi: siate uomini, cioè uomini, ma con Dio in voi. Dio vi darà tutto quelle grazie che vi occorrono ed infine vi consolerà. Nel giorno in cui Dio vorrà dare al mondo la pace, pregate per me nella nostra bella cattedrale. Io, con tutti i morti della nostra bella Susa, scenderò in ispirito in mezzo a voi. Adesso vi lascio perché è tardi e devo andare. Su coraggio! E non piangete! Ricordatevi che mi sono confessato e comunicato prima di morire. Ancora una volta pregate per me e siate forti.
A voi, mio caro don Mirra, anche due parole. Anche a voi ripeto le medesime parole che ho detto ai miei poveri genitori. Ricordatevi sempre di me nelle vostre preghiere e quando dovrete annunciare la triste notizia ai miei, non abbiate timori. Dite loro anche voi che preghino Dio che solo in lui troveranno la forza di sopportare e di vincere».
Il cappellano militare che venne chiamato per confessarlo pochi istanti prima che il giovane venisse condotto davanti al plotone d’esecuzione scrisse una testimonianza del breve incontro che ebbe con S. da far avere alla famiglia: «Alle ore 5 del 17-5-44 in una cella delle carceri di Padova, un ufficiale tedesco, presenti un capitano medico italiano e lo scrivente, comunicava al giovane Silvio Favro che la domanda di grazia da lui presentata 40 giorni prima, era stata respinta e che perciò si disponesse all’esecuzione capitale. Silvio ascoltò a piè fermo, sereno e rassegnato, senza batter ciglio, senza una lacrima, senza escandescenze, con una fortezza d’anima cristiana ed umana che mi sconcertò. Per due ore io rimasi nella cella al suo fianco ed ebbi campo di ammirare la profonda virtù e fede vissuta che egli nutriva in cuore. Si confessò, ricevette la comunione con una devozione angelica, recitammo il rosario, parlando a lungo di Dio, delle vanità di questa vita, del Paradiso che l’attendeva, senza che mai gli venisse meno la sua abituale serenità, senza che gli si smorzasse minimamente sul labbro il sorriso che gli brillava. Io ero trasecolato dinanzi a tanta calma e dovevo lottare da leone contro me stesso per non tradire la commozione che mi sconvolgeva l’animo. Mi disse che non serbava rancore e astio per chicchessia, ma che anzi offriva la sua giovane esistenza al Signore, perché ne derivasse pace al mondo e rinascita alla patria nostra».