Antonio Manzi nacque a Milano il 28 ottobre 1913. Figlio di Enrico e di Virginia Bellezza, ricevette i primi rudimenti religiosi dai genitori, fin dal tempo in cui frequentava la scuola elementare del Sacro Collegio San Carlo. Iscrittosi successivamente al locale Regio Istituto tecnico Carlo Cattaneo, conseguì nel 1932 il diploma di ragioniere, per poi completare il suo curriculum formativo presso l’Università Bocconi dove, il 4 luglio 1936, ottenne la laurea in Scienze economiche e commerciali.
E, tuttavia, il suo interesse per lo studio procedette di pari passo con il suo impegno di cristiano. Significativa è la sua militanza nelle file dell’Azione cattolica e dell’Associazione Giovani studenti Santo Stanislao di Milano, arricchita dall’adesione alla Conferenza di San Vincenzo. Divenuto confratello di quest’ultima, si adoperò a dare forma e sostanza alla compassione, convertendola in forme pratiche di assistenza.
All’età di quattordici anni ricoprì l’incarico di vice-economo – più tardi quello di economo – della Casa alpina Pio X di Biandino, in Valsassina, dove gli studenti della Santo Stanislao erano soliti recarsi in vacanza. Qui, sensibile al richiamo fascinoso della montagna, si scoprì esperto alpinista, al punto che avrebbe dovuto prendere parte, insieme all’amico Pino Gallotti, all’ascensione del K2, il cui capospedizione era Ardito Desio. Il progetto non andò tuttavia in porto, poiché, a causa dello scoppio della guerra, la missione venne rimandata.
Militare di leva, fu impiegato su vari fronti, venendo decorato con la croce di bronzo al merito di guerra. L’8 settembre 1943 lo colse mentre, col grado di tenente, si trovava a Bassano del Grappa, in forza del 5° reggimento. Nel clima tragico e confuso di quei momenti, M. pensò di darsi alla macchia e si diresse verso Sud, ma dopo meno di dieci giorni – non senza pericoli per la sua persona – si convinse a compiere il cammino a ritroso, avendo deciso di entrare a far parte delle file del Partito d’Azione. Venne accolto nella Brigata Gabriele Camozzi, Divisione Orobica delle Formazioni di Giustizia e libertà, assumendo il nome di battaglia di «Vercesio».
In questa sua nuova veste, il 7 ottobre 1943, partecipò all’adunanza che Franco Maj, suo amico di vecchia data e collega di lavoro, tenne presso la sua abitazione a Bergamo, per elaborare forme di finanziamento e piani di coordinamento alla Resistenza. A seguito di questo suo impegno, M. venne messo a capo delle formazioni partigiane che operavano in Val Brembana. Nonostante la sua ben nota intraprendenza, egli era un uomo prudente al punto da non rivelare la propria identità neppure ai collaboratori più intimi.
Dopo l’arresto dell’amico Maj e lo sbandamento delle prime formazioni resistenziali nel Bergamasco, gli era stato consigliato di riparare in Svizzera in quanto ricercato: rifiutò la proposta, richiamandosi a quello spirito di tenacia che aveva ereditato dal suo passato di alpino.
Il 20 febbraio 1944, mentre si trovava nella stazione ferroviaria di Lenna per recarsi a Bergamo, dove si sarebbe dovuto incontrare con Ferruccio Parri, fu arrestato per la delazione di una spia. Tradotto al Collegio Baroni, venne sottoposto a duri interrogatori, ma i fascisti non riuscirono a cavargli una sola parola di bocca. Come ha affermato Giuseppe Belotti, «diede solenne conferma, nei momenti terribili, delle sue note caratteristiche: alpino, poco loquace, ostinato».
Il 3 marzo 1944, ridotto in pessime condizioni fisiche a causa delle torture, venne trasferito dal Baroni al carcere bergamasco di Sant’Agata e venne recluso nella cella di isolamento n. 1. Essa era vicina a quella occupata da Gianfranco Maris, amico conosciuto in Val Brembana, e confinante con quella di Maj, con il quale comunicava con un cucchiaio – da muro a muro – per mezzo dell’alfabeto Morse. Al Sant’Agata, venne a conoscenza della situazione critica dell’amico: questi era in attesa di un processo, per il quale era prevista la condanna a morte. Di qui la decisione di scagionarlo dalle accuse che gli venivano mosse, attraverso la presentazione di un suo proprio memoriale, che però non venne consegnato alle autorità carcerarie grazie all’astuzia di Maj.
Nell’ultima lettera da Bergamo scriveva alla madre che si era recata a visitarlo: «Ho passato bene la Pasqua; ho potuto ascoltare la S. Messa anche come occasione per unirmi a voi! L’anno scorso ho passato il pomeriggio di Pasqua, anche allora solo, nel mezzo del Vallone del Tamer, compagnia le valanghe, quest’anno in cella; da 2500 a 300 metri, ma il morale sempre a 3000!».
Il 20 aprile, insieme all’amico Maris, Antonio fu trasferito al carcere di San Vittore. I due fecero il viaggio fino a Milano con un automezzo, ammanettati insieme; accolti nel nuovo penitenziario, furono rinchiusi in celle diverse. Dal capoluogo lombardo, così Antonio scriveva alla famiglia: «Coraggio Papà che io sono sempre in gamba. […] Motto del 5°: DURARE CORAGGIO COME ME».
Il 26 aprile 1944 a San Vittore iniziarono le operazioni di trasferimento, verso altra destinazione, di un folto gruppo di politici, tra i quali M. e Maris. I due furono fatti salire insieme sullo stesso vagone ferroviario sul quale si trovava anche l’alto dirigente del Partito d’Azione Leopoldo Gasparotto. M. e Gasparotto avevano avuto l’opportunità di incontrarsi di nuovo dopo tanto tempo: allora nessuno dei due avrebbe potuto preconizzare che quel viaggio, che li aveva riuniti, li avrebbe anche destinati a condividere la stessa sorte.
I detenuti, al termine del loro viaggio, giunsero a Fossoli, vasta area campestre che, divisa in due parti, era stata adibita a campo di detenzione. M. era stato assegnato alla baracca n. 19, con la matricola n. 227. Fu proprio nel corso della sua detenzione nel campo che egli scrisse il numero più consistente di lettere. In esse trascurava però di raccontare la serie di gravi episodi che, nel frattempo, si erano verificati a Fossoli, primo tra tutti il cruento assassinio di Gasparotto, avvenuto il giorno 22 giugno.
L’11 luglio, il vice-comandante del campo, Hans Haage, procedette alla lettura di una lista precompilata di detenuti in partenza. Ha ricordato Gianfranco Maris: «Antonio mi pregò di fare il possibile per sapere quale sorte gli fosse stata riservata. Voleva saperlo perché mi disse di appartenere a una congregazione religiosa i cui fedeli avevano fatto voto di prepararsi alla morte, quando l’avessero saputa imminente […]. Antonio voleva prepararsi all’evento con pensieri d’amore […], ma questa scelta non corrispondeva già alla sua natura, alla sua cultura, alle sue riflessioni di fondo in ordine ai rapporti con il prossimo, anche nei confronti degli stessi avversari?».
All’alba del 12 luglio, i prigionieri, divisi in tre schiere, trasportati in autocarro al poligono di tiro di Cibeno, distante dal campo circa tre chilometri, furono assassinati. Tra le 67 vittime, c’era anche M.
Ai funerali, il 24 maggio 1945, le bare dei martiri del Cibeno furono fatte sfilare lentamente, coperte dal tricolore, in mezzo a un mare di folla accorsa a Milano per rendere loro un ultimo saluto. I caduti, che esse contenevano, avevano reso onore, con il loro sacrificio, al “secondo Risorgimento” nazionale. Sopra una delle bare era posto un cappello da ufficiale degli alpini e una medaglia al valore. La bara era quella di M., le cui spoglie erano tornate, finalmente, nella sua Milano. In quella circostanza, Enrico, suo padre, affranto dal dolore, era chino sul feretro del figlio; a fianco stava sua madre, eretta, ma come impietrita: ella non faceva altro che ripetere «purché non sia caduto invano».
Due medaglie d’oro al valore furono conferite alla famiglia Manzi in occasione del ventennale dall’eccidio, una dalla città di Milano, l’altra da quella di Bergamo.
Una medaglia di bronzo al valor militare alla memoria per attività partigiana fu conferita dalla Repubblica italiana nel 1967 con la seguente motivazione: «Manzi Antonio di Enrico, classe 1913, da Milano. – Ex ufficiale degli alpini, entrato volontariamente nelle file partigiane, si distingueva per capacità organizzativa, audacia, sprezzo per il pericolo. Catturato nel corso di un’azione mirante a liberare alcuni commilitoni, resisteva stoicamente alle lusinghe e alle minacce del nemico. Dopo aver sopportato crudeli sevizie, in un campo di concentramento affrontava fieramente la fucilazione con altri commilitoni. – Carpi (Modena), 12 luglio 1944».