Luigi Viviani nacque a Crema il 13 novembre 1903 da Giovanni, medico chirurgo, e Rosa Fusar Poli, quarto di cinque figli.
Trascorsi gli anni giovanili presso la città natale, dove portò a termine con successo gli studi ginnasiali presso l’istituto superiore Alessandro Racchetti, a quindici anni frequentò il liceo spostandosi a Milano, dove ottenne il diploma nel corso del 1920. Nello stesso anno, quindi, si iscrisse alla facoltà di Ingegneria civile del Politecnico del capoluogo lombardo dove si laureò il 30 dicembre del 1926. Fu nel corso di questo periodo di formazione che ebbe modo di prendere parte alle attività dell’Unione giovani cattolici di Crema e, successivamente, del locale circolo di Sgci con sede presso il palazzo Belvedere.
L’esperienza che maggiormente lo segnò fu comunque quella che lo vide impegnato tra le fila dell’Avanguardia cattolica, aggregazione sorta nell’alveo della Gioventù cattolica milanese alla fine del 1919 allo scopo di contrastare le ripetute aggressioni dei “bolscevichi” contro i luoghi sacri e le manifestazioni religiose. Durante la sua permanenza nel sodalizio partecipò a numerosi scontri contro i socialisti e, in un secondo tempo, contro esponenti del neonato movimento fascista. Egli stesso raccontò nel suo diario il suo ingresso nell’Avanguardia cattolica alla fine del 1920 e le esperienze che lo portarono alla «prima zuffa», alle «prime bastone prese» e, solo due anni più tardi, a meritarsi la promozione nella squadra federale di Milano «R. Sangalli» per la sua opera a difesa delle celebrazioni liturgiche nel cremasco.
Delle violenze subite dalle formazioni fasciste ebbe a scrivere lui stesso, nel maggio del 1922, nel quindicinale «A noi giovani» rivolto ai ragazzi iscritti all’Ac di Crema: «Di nuovo in ogni parte d’Italia, come tre anni fa, è uno scoppio di violenza anticlericale, feroce e sacrilega. Ma non è più come nel 1919 e nel 1920, la violenza disordinata, incomposta, improvvisa della plebaglia socialista, infatuata di idee rivoluzionarie. Oggi è un piano d’attacco premeditato, un’offensiva preparata con tutte le regole della tattica», terminando l’articolo con un deciso incitamento ai militanti a non arretrare: «Come due anni fa sapemmo vincere la violenza rossa, oggi vinceremo la violenza fascista. Sapremo imporre al fascismo prepotente il rispetto delle cose sacre, dei nostri ideali, della nostra Fede».
Visto il suo attivo coinvolgimento nell’associazionismo cattolico, V. venne fatto carico di sempre maggiori responsabilità, assumendo prima la carica di presidente della Gioventù cattolica di Crema e, nel dicembre del 1923, di tutta la Federazione giovanile diocesana. In questa veste assunse la direzione della testata del ramo giovanile e si impegnò nella redazione di articoli di taglio associativo ma, soprattutto, di critica sociale e politica. Sui continui scontri con le squadre fasciste ebbe nuovamente a dire: «Dobbiamo dimostrare all’avversario che la sua violenza non ci reca danno alcuno; che se qualche nostro Circolo è stato incendiato, l’idea vive, più forte che mai, nei nostri cuori». Nel 1926, visto il suo costante impegno, venne nominato presidente della Giunta diocesana di Ac, alla giovanissima età di ventidue anni.
In questo periodo, tale fu il motivo di attrito con il regime che V. dovette considerarsi a più riprese in pericolo di vita e, nel tempo, si sentì in dovere di stilare un testamento spirituale rivolto ai suoi genitori. Sottolineando di non temere una morte prematura, accettando fino alle estreme conseguenze la volontà di Dio, si disse «felice se mi sarà dato di sacrificare la mia giovinezza per Lui». Allo stesso modo volle anche sottolineare come fosse «bello morire giovani per un ideale santo e sublime; è bello, per esso, sacrificare una giovinezza piena di sorrisi e fiori, un avvenire pieno di promesse» e, dopo aver salutato un’ultima volta i suoi cari, affermò di perdonare in ogni caso i suoi uccisori. Nonostante queste premesse, V. riuscì a uscire indenne da questi anni difficili senza dover rinnegare la sua militanza ma, anzi, durante il periodo di presidenza della Giunta diocesana si iscrisse anche alla Società di San Vincenzo de’ Paoli.
Discussa la sua tesi, conseguì la laurea in Ingegneria civile al Politecnico e decise di aprire uno studio professionale nella città di Crema. Nel 1927 venne richiamato per assolvere i suoi obblighi di leva e si vide destinato al corso allievi ufficiali di complemento d’artiglieria della specialità contraerei nella scuola di Corpo d’armata di Milano e, nell’aprile 1928, fu nominato sottotenente e assegnato al 7° centro contraerei di stanza a Firenze dal quale venne congedato nell’ottobre dello stesso anno.
Durante i fatti del 1931, che videro l’Ac sotto attacco del governo guidato da Mussolini, V. venne fatto oggetto di una particolare attenzione da parte delle autorità pubbliche in quanto diretto responsabile delle attività dell’associazione in diocesi. Pur dovendo sottostare alla pressione proveniente dagli apparati del regime, egli si dimostrò fin da subito contrario a qualsivoglia tentativo di mediazione con diversi personaggi legati al fascismo locale, sostenuto in quest’opera dal vescovo di Crema Marcello Mimmi. Nel suo diario non mancano le pagine dedicate alle chiusure dei circoli di Gc e Gf ordinate dal prefetto e del relativo sequestro dei beni presenti nelle strutture. Nonostante il rispetto delle ordinanze e degli ordini ricevuti, egli non mancò di lasciar trasparire il suo biasimo e, sottolineando di non temere ripercussioni, tra le pagine dei suoi appunti lasciò intendere che i giovani di Ac sarebbero stati pronti a una dura resistenza se solo «il Papa [avesse] comanda[to]» in questo senso. Sempre nello stesso anno, visto l’acuirsi dello scontro, dovette subire un provvedimento di diffida firmato dal questore di Cremona perché durante la festa del patrono della città non fece nulla per fermare una spontanea aggregazione di giovani che si riunirono per inneggiare al vescovo e al papa. A suo capo venne imputato il tentativo di riorganizzazione della disciolta Federazione giovanile di Ac di Crema.
Alla ricomposizione della disputa tra governo e Santa Sede, tutte le associazioni diocesane di Ac dovettero passare alle dirette dipendenze dei vescovi e V. venne invitato a ricoprire la presidenza del ramo giovanile. In questo suo impegno conobbe, nel 1933, Jolanda Barbaglio, una giovane dirigente diocesana della Gf, con la quale convolò a nozze due anni più tardi.
Nel novembre del 1935 venne richiamato nuovamente sotto le armi per rispondere alla leva dovuta all’offensiva dell’esercito italiano contro l’Etiopia. Nonostante le iniziali indicazioni, non fu costretto a partire per l’Africa perché aggregato al 4° reggimento artiglieria contraerei di stanza a Mantova, dove venne promosso tenente. Tornato a casa, si impegnò nella sua professione fino a quando, nel giugno del 1941, dovette nuovamente rispondere a una nuova e inaspettata chiamata nel Regio esercito, visto l’impegno che quest’ultimo dovette affrontare nei diversi fronti della Seconda guerra mondiale. Destinato sull’isola di Rodi, roccaforte italiana in terra greca, si vide inquadrato come capitano nel 56° raggruppamento di artiglieria contraerea da posizione, 86° gruppo, 232ª batteria da 90/53. Vista la relativa tranquillità del teatro bellico ellenico, V. riuscì in questo periodo a intessere una costante relazione epistolare con la moglie, alla quale fino al settembre del 1943 raccontò di una condizione di sostanziale inattività e di una vita «regolare e tranquilla», dovendo peraltro constatare che, a dispetto delle continue notizie provenienti dai diversi fronti militari, tra le spiagge dell’isola la guerra sembrava che «non esistesse».
Alla firma dell’armistizio di Cassibile, i comandi militari nell’Egeo vennero travolti dall’ambiguità della formula utilizzata per la ratifica dell’accordo con le forze angloamericane e dal comunicato reso pubblico via radio dal maresciallo Pietro Badoglio. In particolar modo, si fece oltremodo complessa la decisione circa l’atteggiamento da tenere nei confronti del vecchio alleato tedesco visto che, con un dispaccio del 9 settembre, venne confermato: «Il Comando Superiore Forze Armate Egeo è libero assumere verso germanici atteggiamento che riterrà più conforme alla situazione. Qualora però fossero prevedibili atti di forza da parte germanica procedere al disarmo immediato delle unità tedesche nell’arcipelago», e più in fondo si chiedeva ai reparti di farsi trovare pronti a qualsivoglia violenza armata da parte tedesca, ma senza prendere alcuna iniziativa ostile contro di essi.
In questo contesto così delineato, V. si trovò a comandare la sua batteria di artiglieria contraerea nel caposaldo di Lorima nella zona sud dell’isola, dovendo in sostanza operare in una situazione resa intricata dal continuo susseguirsi di ordini e direttive. A questo iniziale disorientamento delle truppe italiane, fece da contraltare una decisa azione da parte dell’esercito tedesco che si attivò immediatamente per mettersi in posizione di superiorità strategica rispetto al contingente degli ex alleati attraverso un’opera di sabotaggio dei sistemi di comunicazione, di cattura degli ufficiali di alto grado e di isolamento dei diversi reparti nemici. Fin dal 9 settembre, dunque, cominciò una lunga fase di resistenza da parte delle truppe italiane nei confronti delle forze tedesche che, confermando la decisione di non abbandonare il campo di battaglia, continuò con ferrea convinzione. Tra i reparti che si adoperarono in questo tentativo di opposizione vi fu quello di V. che, agli ordini del tenente colonnello Nunzio Mari, coordinò i suoi uomini per oltre due giorni. Fu lui, inoltre, che ricevette un’ambasciata tedesca che imponeva la resa del suo reparto e la consegna della postazione che si erano impegnati a difendere. Ascoltati gli ufficiali, decise di ordinare il loro arresto per tentare uno scambio di prigionieri e fece aprire il fuoco sul mezzo di scorta che, intuite le sue intenzioni, si stava precipitosamente dando alla fuga.
Lo strenuo tentativo di difendere il caposaldo venne tuttavia reso vano nella giornata dell’11 settembre, quando il governatore italiano ancora presente sull’isola decise di «ordina[re] la resa dei reparti e la consegna delle armi» costringendo coloro che non avevano abbandonato le loro posizioni a lasciare gli armamenti davanti all’avanzata del nemico. Reso inerme il suo reparto, V. venne posto in stato di arresto e, durante i giorni di prigionia, riuscì a far pervenire una lettera alla moglie nella quale, scusandosi per non aver tempo di raccontare quanto era stato fatto nelle giornate che seguirono la firma dell’armistizio, le assicurava che non avrebbe mai dovuto vergognarsi dei suoi atti e delle sue decisioni, specificando: «Ho passato ore in cui, solo, isolato, ho dovuto decidere della sorte dei miei uomini. Essi però mi hanno seguito tutti quando la decisione è stata presa. Si sono battuti da leoni e così sono stati chiamati da un colonnello. Ora siamo in condizione di prigionieri e attendiamo di ora in ora la decisione della nostra sorte».
Accusato – senza fondamento – di aver permesso che una camionetta recante bandiera bianca fosse sottoposta a mitragliamento, venne trasferito nelle prigioni «Averoff» di Atene dove rimase in attesa di regolare processo militare. Nonostante questo, nella mattina del 29 settembre 1943 venne condotto fuori dal luogo di prigionia e, senza aspettare il giudizio di un tribunale, fucilato da un plotone di militi tedeschi.
Nel 1948 alla memoria di V. venne decretata la medaglia d’oro al valor militare con il grado di capitano di complemento d’artiglieria, 56° raggruppamento artiglieria contraerei da posizione, con la seguente motivazione: «Comandante di batteria e di caposaldo, tenendo fede alle leggi dell’onore militare opponeva tenace resistenza ad agguerrite formazioni tedesche cui infliggeva severe perdite ed infine respingeva. In successiva aspra azione concorreva con la sua batteria alla distruzione di artiglierie nemiche. Delineatasi la crisi generale, si opponeva all’ordine di capitolazione presentato gli dai tedeschi e ad essi resisteva con virile fermezza. Catturato e condannato a morte affrontava l’estremo sacrificio con stoica fierezza. Sublime esempio di preclari virtù italiche. Egeo (Grecia), 9-11-27 settembre 1943».