Alfonso Zacco nacque il 13 agosto 1924 a Pramollo, in provincia di Torino, da Valentino e Battistina Reynaud. Residente a San Germano Chisone, un piccolo comune nella Val Chisone, fin da giovanissimo fece parte del locale circolo Giac «G. Caramassia», dove peraltro ebbe modo di conoscere Alessio Robert che ugualmente fece parte del movimento resistenziale ma nella zona del pinerolese.
Nell’estate del 1943 venne richiamato sotto le armi per assolvere gli obblighi di leva e, dopo un breve periodo di formazione, fu assegnato al distretto militare di Pinerolo. Nelle giornate che seguirono l’annuncio ufficiale della ratifica dell’armistizio di Cassibile, Z. dovette constatare la confusione creatasi tra i reparti italiani dovuta alla mancanza di direttive chiare da parte dei comandi militari circa il rapporto da tenere con l’ex alleato nazista. Si può dunque supporre che, successivamente allo sbandamento di gran parte dei reparti del Regio esercito, egli decise di far ritorno a casa e di rimanervi per qualche tempo, eludendo così la chiamata alle armi dei primi bandi Graziani e rendendosi dunque disertore della leva repubblichina.
Nel fascicolo personale conservato nel fondo Ricompart si attesta la sua partecipazione alla Resistenza dal marzo 1944, quando decise di salire in montagna ed entrare tra le fila della brigata Val Germanasca “Willy Jervis” della 5ª Divisione alpina Gl che operava principalmente tra le valli Pellice, Germanasca e Angrogna, che aveva da poco assunto il nome della futura medaglia d’oro e socio della Giac Sergio Toja, colpito a morte dai nazifascisti durante un’azione del suo gruppo alla stazione ferroviaria di Bibiana.
Non sono note le operazioni alle quali Z. partecipò durante il suo periodo in banda, ma è invece rimasta testimonianza dell’episodio nel quale incontrò la morte. L’11 novembre del 1944 il suo gruppo, momentaneamente dislocato in località Ticiun, sopra Pramollo nella bassa val Chisone, secondo alcune ricostruzioni in attesa della guarigione dalla febbre del caposquadra Gino Bounous, venne attaccato all’alba da reparti nazifascisti in attività di rastrellamento guidati dalle precise indicazioni di sei delatori. Lo scontro si rivelò da subito impari e i pochi partigiani, che peraltro erano in quel momento non particolarmente armati, si resero subito conto di non poter resistere a lungo contro le soverchianti forze nemiche. Dopo un breve scontro a fuoco, repubblichini e tedeschi decisero di porre fine all’operazione attraverso un ampio uso di bombe a mano che costrinse i partigiani a uscire dal rifugio e arrendersi. Pur se resi inoffensivi, Z. e un suo compagno vennero violentemente picchiati e finiti con i calci dei fucili, gli altri tre partigiani, invece, furono condotti in una vicina altura e colpiti a morte con raffiche di mitra. Infine, i corpi vennero gettati in un dirupo affinché non fossero immediatamente individuabili dalla popolazione locale. Così ricordò il loro ritrovamento Lilia Jahnier, staffetta partigiana, che fu una delle prime ad arrivare sul posto: «Uno spettacolo terribile, quei poveri ragazzi morti, due addirittura massacrati, con la testa schiacciata dagli scarponi dei fascisti».
La memoria di questo eccidio e la responsabilità dei delatori ha per lungo tempo aperto una frattura nella comunità di San Germano Chisone che le indagini di polizia avviate nell’immediato dopoguerra non è riuscita a ricomporre. La dinamica degli eventi si è in parte chiarita solo in tempi molto recenti in seguito a parziali ammissioni di colpevolezza da parte di alcuni membri del gruppo di fascisti che partecipò alla strage.