Mario Zeduri nacque a Bergamo l’11 gennaio del 1926, secondo di cinque figli. Educato in una famiglia di forti sentimenti cristiani, fin da piccolo fu attivo negli ambienti dell’Azione cattolica. Iscrittosi al circolo Giac Sant’Ignazio della città natale, nel corso del tempo assunse sempre maggiori responsabilità fino a essere nominato delegato della sezione Aspiranti e, inoltre, vicepresidente della locale Conferenza di San Vincenzo. In questi anni, dopo aver atteso agli studi elementari e medi, venne ammesso al liceo classico Paolo Sarpi di Bergamo dove, nel giugno del 1944, conseguì la maturità. Iscrittosi alla facoltà di Ingegneria al Politecnico di Milano, prima di cominciare le lezioni ottenne un impiego in un’azienda edile locale che, oltre a permettergli di contribuire alle modeste finanze familiari, gli sarebbe stato anche utile come copertura durante il periodo trascorso nella lotta partigiana.
Già da qualche settimana, infatti, Z. si trovava nel paese di Paratico, in provincia di Brescia, presso l’abitazione della staffetta Celestina Gatti, in attesa di presentarsi al comando della 53ª brigata Garibaldi Tredici Martiri. Arrivato il momento, il giovane venne inquadrato tra le fila della formazione che, guidata dal partigiano comunista Giovanni Brasi («Montagna»), operava principalmente nella zona della Val Camonica, nell’Alta Valle Seriana e nel territorio intorno al piccolo comune di Bossico. Assunto il nome di battaglia di «Tormenta», il giovane si distinse fin da subito nel corso di diverse operazioni di sabotaggio e di guerriglia contro le truppe nazifasciste.
La copertura offertagli dal suo impiego professionale sembra emergere in maniera abbastanza evidente in questa lettera che, l’8 agosto del 1944, Z. fece recapitare all’assistente ecclesiastico del circolo Giac di Bergamo per raccontare i primi mesi di impegno nel movimento resistenziale: «Carissimo Padre, dopo tanto tempo mi faccio vivo […]. Non mi è stato proprio possibile prima. È la nostra vita che ci impone questo. È la nostra impresa che ci porta di qua e di là per le costruzioni edili. Ora è equipaggiata alla perfezione e anche il numero degli operai è molto alto. Ora stiamo terminando un edificio nell’alta Val Camonica; e per un po’ di tempo ci fermeremo qui; poi non so dove l’ingegnere ci porterà. Io sto benissimo sotto tutti i punti di vista; è solo un po’ dura la vita e mi pesa non poco la lontananza dalla casa e dalla mia cara congregazione ed in particolar modo dei miei cari Aspirantini, ai quali mi accorgo di portare un immenso affetto. Mi saluti tutti, uno per uno, i miei cari Aspiranti e dica loro che il Delegato, anche se lontano non li dimentica un solo momento. Prima di partire da Bergamo senza dir niente a nessuno, tutti insieme mi hanno preso e mi hanno dato un ricordino sacro e benedetto, promettendomi di pregare sempre per me. E in molti momenti me ne sono accorto che le loro preghiere mi hanno protetto».
Dopo pochi mesi di permanenza in formazione, il 31 agosto del 1944 Z., che nel frattempo era stato assegnato alla prima squadra dinamitardi della brigata al comando del tenente Giorgio Paglia – socio della Fuci di Bergamo e futura medaglia d’oro al valor militare –, prese parte alla durissima battaglia di Fonteno, lungo il lago d’Iseo, contro un reparto nazifascista comandato dal maggiore Langer che stava compiendo un rastrellamento come rappresaglia a seguito della cattura da parte dei partigiani di alcuni militi tedeschi. Al termine del combattimento la brigata Tredici Martiri riuscì ad avere la meglio sulle forze nemiche ma, nel corso della battaglia, Z. rimase seriamente ferito alla gamba destra. Condotto a Valmaggiore per ricevere le cure del caso, durante il periodo di convalescenza trascorso in questo luogo ebbe modo di scrivere diverse lettere per rassicurare la madre e i parenti. In una missiva datata 15 ottobre 1944, spedita per mano di una staffetta partigiana, il giovane si dilungò molto nella descrizione della battaglia di Fonteno: «L’ultimo rastrellamento è stato terribile; 800 fascisti e tedeschi assalirono le nostre posizioni preparate a difesa. Allora sì che si sentiva la morte, regina del campo di battaglia! 12 ore di combattimento continuo; i nemici furono ributtati con ingenti perdite. Ma certo che il sangue dell’eroismo dei Patrioti ha ancora una volta lavato le nostre sacre montagne. Verso sera […] uscii dalla postazione col mio tenente, imbracciando il mitra per inseguire il mio nemico. In mezzo al sibilo dei proiettili nemici sparammo 8 raffiche ben aggiustate su ognuno dei fascisti che si ritirava; solo in questo punto abbiamo trovato 18 morti. Ma il mio tenente era a terra inchiodato ed io a pochi metri dal nemico fui inchiodato al terreno da un colpo di mitraglia. Quello che ho visto in quel momento non te lo posso scrivere! Sangue, sangue, sangue! La caviglia era fracassata». Quasi a volersi scusare per il pensiero che recava a sua madre, terminava la lettera dicendo: «Certo cara mamma che il mio calvario non avrei dovuto raccontartelo, per non farti soffrire; ma ho dovuto sfogarmi. Ma non piangere mamma, poiché il tuo Mario ritornerà; lo sento dentro al mio cuore; sento che ho sopra il mio capo la protezione della Vergine, la quale dopo avermi preservato centinaia di volte dalla morte […] sono sicuro che mi preserverà anche in avvenire».
Pur non completamente guarito dall’incidente e rifiutando il consiglio dei medici che gli prescrivevano ulteriore riposo per una giusta convalescenza, Z. decise di raggiungere la brigata per unirsi ai suoi compagni e fronteggiare insieme a loro le minacce di rastrellamenti che andavano moltiplicandosi. Fu proprio al suo rientro, nella notte tra il 16 e il 17 novembre del 1944, che il rifugio della Malga Lunga sopra Lovere venne accerchiato e attaccato da un numero soverchiante di militi della brigata Tagliamento della Repubblica sociale. I fascisti riuscirono, dopo un breve scontro a fuoco, a catturare sette partigiani. Nella confusione del momento Z., invece, tentò di resistere e venne raggiunto da una scarica di mitraglia che lo lasciò esanime a terra. Il suo corpo fu recuperato il giorno successivo da due partigiani che trasportarono il cadavere nel cimitero del paese di Gandino per seppellirlo.