Giuseppe Bollini nacque a Legnano, in provincia di Milano, il 12 marzo 1922 da Vittorio, operaio specializzato in una fonderia dell’azienda metalmeccanica Franco Tosi, e Rosa Crespi. Secondo di quattro fratelli, crebbe all’interno di un contesto familiare che, seppur di modeste condizioni economiche, non incontrò mai gravi problematiche finanziare.
B. frequentò le scuole elementari presso l’Istituto De Amicis e, quindi, si iscrisse alla scuola professionale interna all’azienda nella quale lavorava il padre, messa a disposizione dei figli degli operai che potevano così assumere il ruolo di apprendista già all’età di quattordici anni. Alla posizione assunta in fabbrica, decise di affiancare l’impegno presso un’attività commerciale di casalinghi, in modo da poter dare un maggior contributo alle spese della famiglia. In questi anni giovanili, inoltre, ebbe modo di prendere parte alle vivaci attività che ruotavano intorno all’oratorio della parrocchia di San Magno, in quel tempo guidato dal giovanissimo e caparbio assistente don Carlo Bianchi. A questo aggiunse, ben presto, il dinamismo che caratterizzò la sua presenza tra le fila dei militanti del locale circolo della Giac e la responsabilità come catechista in oratorio. L’Azione cattolica fu per lui una vera scuola di vita e, prendendo a modello Pier Giorgio Frassati, lo portò anche ad appassionarsi alla montagna e all’alpinismo che praticò con grande entusiasmo e che vedeva come metafora dell’ascensione alle vette spirituali.
Ancora ragazzo, accolse la notizia dell’entrata dell’Italia nel secondo conflitto mondiale e dei duri combattimenti condotti dall’esercito nei diversi fronti di battaglia continuando a operare nel suo posto di lavoro. Alla firma dell’armistizio di Cassibile rimase a Legnano, dove però cominciò a inserirsi nell’opera di collegamento tra i gruppi clandestini che andavano costituendosi e, inoltre, fu direttamente coinvolto in alcuni atti di sabotaggio organizzati da militanti comunisti all’interno della Franco Tosi al fine di ridurre sensibilmente la produzione bellica imposta dagli occupanti tedeschi. Il susseguirsi di eventi di contrapposizione interni alla fabbrica e di agitazioni dei dipendenti culminarono, il 5 gennaio 1944, in uno sciopero proclamato dagli operai per richiedere un adeguamento dei salari che pareggiasse l’aumento del costo della vita. Nel corso della stessa giornata B. fu uno dei testimoni che videro il generale tedesco Paul Zimmermann, che aveva l’incarico di reprimere gli eventi di protesta nell’Italia del nord, giungere sul luogo con un contingente di militi nazisti che, fatta irruzione, misero in stato di arresto i lavoratori maggiormente responsabili della sollevazione e li condussero a Milano dove, dopo essere stati interrogati a lungo, furono tutti rilasciati a eccezione di nove i quali, considerati i colpevoli, vennero deportati in Germania e spediti al campo di Mauthausen.
Nonostante questa sua attiva presenza già nella lotta antifascista nell’ambiente di Legnano, il ruolo avuto da B. tra le fila di una banda partigiana deve essere ascritto sostanzialmente a uno sfortunato episodio. Nel periodo in cui si fecero più intensi i bandi di reclutamento emanati dal maresciallo Graziani nei territori controllati dalla Rsi – oltre che la deportazione forzata di giovani italiani per essere occupati nella produzione bellica all’interno dei confini della Germania nazista – il giovane poteva considerarsi al sicuro dal rischio di arruolamento visto il suo impiego presso una fabbrica che veniva reputata strategica per l’impegno militare dei nazifascisti. Ciononostante, dopo essere stato ingiustamente accusato di complicità in un furto compiuto vicino alla zona dove lavorava, nei due giorni passati per equivoco in carcere, venne licenziato dalla Franco Tosi e a nulla valsero le successive dichiarazioni di innocenza che provennero anche da chi aveva condotto le indagini.
Privato di questa protezione, nell’estate del 1944 si vide richiamato sotto le armi per essere destinato a un reparto della Marina della Repubblica di Salò. Particolarmente colpito dall’inattesa notizia, si confidò con don Carlo Riva che, potendo contare su solidi contatti con diverse formazioni della Resistenza legate alla realtà cattolica milanese, non ebbe dubbi nel consigliargli di raggiungere la brigata Paolo Stefanoni, comandata da Renato Boeri detto «Renato», inquadrata nella Divisione Valtoce.
Partito in compagnia di alcuni ragazzi della zona, venne intercettato da una pattuglia di militi fascisti, riuscendo a stento a trovare una via di fuga e a rifigurarsi in montagna. B. dovette quindi rinunciare a raggiungere la formazione indicatagli da don Riva e si aggregò invece alla banda Giovane Italia – guidata dal comandante «Guido il Monco» – che da poco aveva subito un durissimo rastrellamento a opera delle forze nazifasciste che la costrinse a riorganizzarsi dando vita alla Valgrande martire. In questo raggruppamento, in cui erano presenti in particolar modo comunisti e socialisti, al giovane legnanese venne assegnato in tono di scherno il nome di battaglia di «Il Clericale», per sottolineare la sua dedizione alle pratiche religiose.
Tra le fila di questa formazione, ai primi di settembre del 1944, prese parte alla breve esperienza della Repubblica partigiana dell’Ossola, zona liberata dalla Valtoce comandata dal socio di Ac, poi medaglia d’oro, Alfredo Di Dio. Quando il 10 ottobre successivo le truppe della Rsi fecero partire un’offensiva contro la regione, a nulla valse un effimero tentativo di resistenza e, ben presto, tutta la popolazione locale e gli uomini legati alle bande decisero di rifugiarsi oltre i confini della penisola, raggiungendo la Svizzera per evitare gravi perdite e dure rappresaglie. Anche la brigata Valgrande martire si spostò in massa e B., appena oltrepassata la frontiera insieme ai suoi compagni, venne condotto in un campo per rifugiati nel territorio elvetico.
Deciso a rientrare in Italia, nel gennaio del 1945 prese contatti con il Cln di Milano che inviò una guida perché accompagnasse il gruppo di partigiani rientranti utilizzando sentieri che non fossero conosciuti alle milizie nazifasciste. Dopo aver cominciato il viaggio, però, l’uomo si rivelò un collaborazionista del nemico e li condusse nella zona dove operava una pattuglia tedesca, che li catturò tutti e li pose in stato di arresto. Condotto a Domodossola, B. si vide trasferito il 7 febbraio 1945 in una cella della caserma del reparto della Gnr che operava come guardia di frontiera di Canobbio e che, qualche giorno prima, aveva visto un proprio milite ucciso dai partigiani nella vicina frazione di Traffiume. Per questo motivo egli venne scelto tra i prigionieri per la rappresaglia e, quando gli venne comunicata la decisione, chiese di poter avere i conforti religiosi di un prete per le ultime ore di vita. Per questo motivo il prevosto di Cannobio, don Ezio Bellorini, raggiunto il giovane il giorno successivo alla sua incarcerazione, ebbe modo di dividere con lui i pensieri precedenti all’esecuzione della condanna.
L’8 febbraio 1945, dunque, B. venne condotto a Traffiume davanti al plotone di militi fascisti che, all’ordine convenuto, mise fine alla breve parabola della sua vita. Don Bellorini in un memoriale stilato appena al termine degli eventi bellici raccontò che appena sceso dall’auto, nel luogo dove avrebbe subito la fucilazione, il ragazzo ebbe modo di avvicinare il tenente che comandava le operazioni della giornata e, dopo averlo salutato e ringraziato, assicurando di non provare rancore nei confronti di nessuno, volle affermare di aver «sempre avuto questo ideale: di vedere la nostra povera patria liberata da tanti odii e da tanta guerra e veramente grande e libera. Anzi questo è il mio ultimo desiderio che nessuno mai venga ad essere ucciso per vendicare la mia morte».