Rino Molari nacque il 9 maggio 1911 a Santarcangelo di Romagna, in provincia di Rimini, da Tito e Cecilia Ricci. La famiglia, di modeste condizioni economiche, era da sempre dedita alla cura dei campi di proprietà e anche i tre figli maschi erano destinati a un futuro come piccoli possidenti agricoli.
Terminate le scuole elementari nel suo paese natale, M. decise di dare seguito ai propri studi facendo richiesta di iscrizione al ginnasio presso il seminario vescovile di Rimini dove, vedendosi accettato, cominciò le lezioni nell’autunno del 1923. La scelta, che andava decisamente controcorrente rispetto al percorso che i suoi genitori avevano prospettato per lui, rispondeva a un’ottica di promozione sociale vista l’estrazione popolare della sua famiglia. Nonostante i dubbi iniziali, la decisione del ragazzo fu accettata di buon grado e, malgrado il sacrificio economico che avrebbe comportato, venne assecondata la sua volontà di continuare gli studi visto il contemporaneo impegno di entrambi i suoi fratelli nelle terre coltivate dal padre.
Terminati con soddisfazione i cinque anni di ginnasio, alla fine del 1928 volle spostarsi al seminario regionale di Bologna per frequentare il liceo. Alla fine del percorso di studi superiori, ottenuto il diploma, rese esplicita la volontà di frequentare l’Università Gregoriana a Roma ma, vista la spesa che questo trasferimento avrebbe comportato, dovette cedere all’impossibilità materiale di sostenere l’ingente sforzo finanziario da parte della famiglia. Accantonato questo desiderio, decise allora di rimanere nel capoluogo emiliano e di iscriversi al corso di Teologia. Nel 1933, terminato il secondo anno di studi, si convinse a lasciare il seminario per iscriversi alla Facoltà di lettere dell’ateneo bolognese. In questi anni di formazione accademica, insieme a un gruppo di colleghi provenienti come lui dal seminario, decise di prendere parte alle attività dell’associazione giovanile di Ac di Bologna e, successivamente, del circolo Fuci presente nell’Università. Terminò gli studi nel corso dell’anno accademico 1936-1937 quando discusse la propria tesi di laurea in glottologia dal titolo I dialetti di Santarcangelo e della vallata del Marecchia a monte di Santarcangelo, seguito dal professor Pier Gabriele Goidanich come relatore.
Il 20 novembre 1937, pochi giorni dopo aver conseguito la laurea in Lettere, M. venne richiamato per assolvere i propri obblighi di leva e dovette recarsi presso il Centro addestramento reclute di Spoleto, dove rimase pochi giorni per poi essere spostato in quello di Roma. Nella capitale venne sottoposto ad accurata visita medica durante la quale gli fu riscontrata una forte miopia che lo rendeva inabile al servizio militare e, dunque, dopo essere stato riformato venne rispedito a casa già il 28 novembre.
Tornato nella sua città natale, fece richiesta per occupare il ruolo resosi vacante come professore alle scuole medie di Rimini e Savignano, scegliendo dunque di dedicarsi all’insegnamento. Terminate queste due parentesi, venne chiamato presso la scuola di avviamento professionale di Novafeltria. Fu proprio in questo periodo che conobbe la maestra Eva Manenti, che sposò il lunedì di Pasqua del 1942 durante una licenza dal servizio militare e dalla quale ebbe un figlio nel marzo del 1943.
Pur essendo stato riformato, infatti, durante la II Guerra mondiale M. fu richiamato per un breve periodo di leva vedendosi assegnato, tra il 1941 e la primavera dell’anno successivo, prima ai servizi sanitari presso l’ospedale militare di Bertalia di Bologna e, quindi, all’ospedale militare di Cervia. Nuovamente esentato, nell’estate del 1942 dovette trasferirsi in Sardegna per occupare la cattedra di professore di lettere presso l’Istituto magistrale della provincia di Nuoro. Dopo aver mantenuto questo ruolo per tutto l’anno scolastico, in quello successivo M. ottenne di potersi spostare, vista la recente nascita del figlio, in una sede più vicina alla famiglia e per il 1943-1944 ebbe dunque una cattedra alle scuole medie di Riccione.
Fino alla caduta del regime, nel luglio del 1943, la posizione di M. nei confronti del fascismo non può essere definita come quella di un aperto contestatore. Ciononostante, motivi di frizione con le autorità costellarono gli anni trascorsi nella professione di insegnante e alcune dure prese di posizione contro le scelte effettuate dal governo, da lui esternate davanti a alunni o colleghi, comportarono diverse segnalazioni al suo indirizzo da parte dell’amministrazione scolastica e, successivamente, dalle autorità di pubblica sicurezza. A tutti era nota, ad esempio, la sua avversione verso l’alleato tedesco e la ferma condanna verso l’invasione dei territori polacchi da parte della Germania, che lo portarono a esprimere giudizi severi anche verso la successiva entrata in guerra dell’Italia. Questo comportamento fu oggetto di valutazione da parte degli apparati del regime, tanto che nel suo fascicolo personale aperto presso il Provveditorato agli studi di Forlì venne annotato che andava considerato come «elemento poco raccomandabile».
Fu nell’arco di tempo intercorso tra la caduta del regime fascista e l’annuncio della firma dell’armistizio di Cassibile che M. volle approfondire quelle idee politiche che lo portarono a dare il proprio tangibile contributo alla lotta di liberazione nazionale. Nel primo periodo dell’occupazione, infatti, ebbe modo di avvicinarsi a noti antifascisti riccionesi e a personaggi di spicco della neonata Dc, come don Giovanni Montali e Giuseppe Babbi, potendo dunque discutere con loro circa la posizione da assumere nel corso degli eventi che si andavano sviluppando. Ecco perché egli volle ben presto prendere parte attiva alla nascita del Cln di Santarcangelo – che fu attivo già dall’ottobre 1943 – pur non accettando alcun ruolo dirigenziale. Fu lui, in ogni caso, a stringere e mantenere rapporti con i capi comunisti attivi a Santarcangelo come Cornelio Balducci del Pci o col comandante militare dei Gap della zona Emilio Scarponi.
Nella sua opera in seno alla Resistenza romagnola, alla quale, pur prendendo posto tra le fila dell’8ª Brigata Garibaldi, volle dare una chiara connotazione non violenta, rifiutandosi di partecipare ad azioni armate e a scontri a fuoco, si spese a lungo in opere di sabotaggio e non collaborazione. Si attivò, in particolare, per produrre documenti contraffatti che permettessero a ebrei e renitenti alla leva dei bandi della Rsi di trovare una via di fuga verso sud o sui monti, per non cadere vittime delle deportazioni di massa verso la Germania. Inoltre, adoperandosi a lungo nell’organizzazione e nel coordinamento delle bande partigiane presenti nella zona, si impegnò per risolvere l’endemica penuria di armi, munizioni e denaro a disposizione delle formazioni della Resistenza e per tessere le fila dei contatti tra gli antifascisti presenti nella zona, anche con una rischiosa opera di propaganda.
Il 27 aprile 1944, a seguito della delazione di un collaborazionista degli occupanti nazifascisti, M. venne arrestato mentre si trovava nella sua camera alla pensione «Alba» e, con lui, dovette subire la stessa sorte un folto gruppo di partigiani operanti nel riccionese, tra cui il colonnello Innocenzo Monti, che da qualche tempo aveva ottenuto l’incarico dal Cln di comandante militare dell’8ª zona dell’VIII Brigata Garibaldi. Condotto presso la caserma dei carabinieri di Santarcangelo, il gruppo venne trasferito il giorno successivo nel carcere bolognese di San Giovanni in Monte e rinchiuso nel braccio dei detenuti politici sotto la costante osservazione di un manipolo di ss. In questo periodo di prigionia, M. venne sottoposto a duri interrogatori e, pur dovendo subire sevizie di ogni genere, decise di non rivelare alcuna informazione utile ai suoi aguzzini.
Visto l’ostinato silenzio nel quale si barricò, nel corso dei primi giorni di giugno si decise di trasferirlo al campo di concentramento di Fossoli, presso Carpi, dove gli venne dato il numero di matricola 1406 e fu assegnato alla baracca 16A, quella degli internati politici. Lui stesso stilò un rapido resoconto del suo ingresso e della sua vita nel campo quando, il giorno successivo al suo internamento, scrivendo alla moglie una breve lettera nella quale raccontava: «da ieri sono il 1406 del campo di concentramento di Carpi. Sveglia alle 6, ritirata alle 21.45 due adunate per la conta, una alle 7, l’altra alle 18, due volte la minestra al giorno, una volta il caffè, poi libertà di andare dove più aggrada, ecco la vita al campo». Inoltre, dando evidentemente una versione che fosse confortante per i suoi cari, ebbe modo anche di specificare il trattamento che riceveva giornalmente: «Capelli a zero (sto però molto bene) due triangoletti di tela rossa di 15 cm circa, uno cucito sul pantalone di sinistra, l’altro sulla giacca sotto il taschino, due rettangoli di tela bianca con il N.1406 cuciti sotto i triangoletti rossi, ecco il tuo Rino. Ho cambiato veramente in meglio e mi aggiro contento per gli immensi cortili di questo campo: sarà grande quasi un Km²; siamo accantonati in baracche in muratura tutte eguali che contengono circa 120 persone l’una. Ora ho con me nuovamente tutti gli oggetti, lettere, carte, fotografie come quando ero a Riccione o a Novafeltria; tutto ci è concesso tranne il vino e il permesso di uscire fuori dei reticolati».
A rappresaglia di un attentato ordito a fine giugno da una formazione di partigiani genovesi ai danni di un plotone di militari delle Ss, in cui trovarono la morte sei militi ˗ questa almeno fu la motivazione letta davanti ai detenuti, anche se probabilmente la decisione era legata allo sgombero del campo, eliminando i prigionieri più pericolosi ˗, venne dato ordine dalle autorità tedesche di procedere alla selezione di settanta internati del campo di Fossoli che sarebbero stati fucilati. All’elenco stilato primariamente vennero fatte alcune modifiche che portarono il computo dei condannati a sessantasette prigionieri, tra i quali venne compreso il nome di M. Dopo aver fatto loro scrivere delle lettere per tranquillizzare le famiglie, all’alba del 12 luglio vennero tutti condotti al poligono di tiro di Cibeno, a Carpi, dove subirono l’esecuzione della condanna a morte e furono seppelliti in un’unica fossa comune.