Luigi Spoldi nacque a Moscazzano, piccolo comune in provincia di Cremona, il 1° novembre del 1923 da Stefano, reduce della Prima guerra mondiale nella quale aveva partecipato alle operazioni sulla Malga Zugna contro gli austriaci, meritandosi una medaglia di bronzo al valor militare, e Cesira Guerini. Crebbe in un ambiente familiare impregnato di profonda religiosità e fin da giovane fu attivo negli ambienti dell’Azione cattolica, iscrivendosi al circolo Giac «San Luigi» guidato e animato dall’assistente don Vittorio Patrini.
Durante la giovinezza S. ebbe modo di attendere agli studi elementari e medi ma, per poter contribuire alle modeste finanze dei genitori e al sostentamento della numerosa famiglia, decise di lasciare gli studi per trovarsi un impiego. Trovato lavoro come mungitore presso l’azienda agricola Fusar Bassini in località Colombare, in questa occupazione visse da spettatore l’ingresso dell’Italia nel secondo conflitto mondiale. Nell’aprile del 1943 venne richiamato per assolvere agli obblighi di leva e, dopo aver passato la visita medica e ottenuto l’idoneità, venne inviato a Fossano, in provincia di Cuneo, per il periodo di formazione militare. Terminato il corso di addestramento, quindi, venne inviato sul fronte francese e, nel luglio del 1943, richiamato per essere trasferito al deposito del 309° reggimento di fanteria «Regina» di stanza a Barletta. Dopo alcuni giorni, però, si vide destinato presso la guarnigione italiana sull’isola di Rodi.
Alla firma dell’armistizio di Cassibile, i comandi militari nell’Egeo vennero travolti dall’ambiguità della formula utilizzata per la ratifica dell’accordo con le forze angloamericane e dal comunicato reso pubblico via radio dal maresciallo Pietro Badoglio. In particolar modo, si fece oltremodo complessa la decisione circa l’atteggiamento da tenere nei confronti del vecchio alleato tedesco visto che, con un dispaccio del 9 settembre, venne confermato: «Il Comando Superiore Forze Armate Egeo è libero assumere verso germanici atteggiamento che riterrà più conforme alla situazione. Qualora però fossero prevedibili atti di forza da parte germanica procedere al disarmo immediato delle unità tedesche nell’arcipelago». Più in fondo, inoltre, si chiedeva ai reparti di farsi trovare pronti a qualsivoglia violenza armata da parte tedesca, ma senza prendere alcuna iniziativa ostile contro di essi.
In questo contesto così delineato, S. si trovò a tentare insieme ai suoi compagni una strenua ma effimera difesa, dovendo in sostanza operare in una situazione resa intricata dal continuo susseguirsi di ordini e direttive. A questo iniziale disorientamento delle truppe italiane, fece da contraltare una decisa azione da parte dell’esercito tedesco che si attivò immediatamente per mettersi in posizione di superiorità strategica rispetto al contingente degli ex alleati attraverso un’opera di sabotaggio dei sistemi di comunicazione, di cattura degli ufficiali di alto grado e di isolamento dei diversi reparti nemici. Fin dal 9 settembre, dunque, cominciò una lunga fase di resistenza da parte delle truppe italiane nei confronti delle forze tedesche che, confermando la decisione di non abbandonare il campo di battaglia, continuò con ferrea convinzione. Lo strenuo tentativo di difendere il caposaldo venne tuttavia reso vano nella giornata dell’11 settembre, quando il governatore italiano ancora presente sull’isola decise di «ordina[re] la resa dei reparti e la consegna delle armi» costringendo coloro che non avevano abbandonato le loro posizioni a lasciare gli armamenti davanti all’avanzata del nemico. S. dunque venne catturato insieme al contingente di soldati italiani e rinchiuso nel «campo di raccolta n° 7», dove rimase almeno fino al mese di gennaio 1944.
Tradotto in Germania con i suoi compagni, nei primi mesi del 1944 S. fu internato nel campo di prigionia Reservelazarett Stalag IV B, struttura distaccata dello Stalag IV B di Mühlberg adibito ad accogliere prigionieri di guerra di diverse nazionalità (tra cui ci furono moltissimi Imi). Le tragiche condizioni sanitarie che caratterizzavano la vita nel campo resero abbastanza frequenti le epidemie di malattie particolarmente letali. Non passò molto tempo che il giovane, proprio a causa della precarietà delle più basilari regole igieniche, contrasse una grave forma di tubercolosi che lo accompagnò per diversi mesi debilitandolo gravemente. Di questa malattia diede egli stesso notizia al padre in una lettera del 23 maggio 1944: «Caro papà, ti inniscio [sic] questa mia cartolina per farti sapere la mia situazione, la mia disfortuna [sic] che mi ritrovo ammalato e dove mi trovo non ci è cure»; e ancora, qualche settimana dopo alla madre, scrisse: «Sento che siete commossi per la mia malattia. Mamma cosa volete fare sono stato molto sfortunato. Cara mamma voi mi dite se o qualche mezzo per curarmi ma io non cio [sic] niente fuori di qualche messe e sante comunioni l’unica medicina che ci è in campo di concentramento».
Conosciute le sue condizioni, quindi, il padre fece alcuni passi nei confronti del comando tedesco di stanza a Moscazzano per indurre l’ufficiale del presidio ad accettare la sua volontà di prendere posto nell’organizzazione Todt in cambio del rimpatrio immediato del figlio, bisognoso di cure mediche. Fu proprio la madre di S. a comunicargli questo tentativo in una lettera del novembre 1944: «Ora stiamo facendo delle carte, per farti rimpatriare. Il tuo papà sostituirebbe in cambio il tuo posto di lavoro qui nella tot [sic] in Italia. Speriamo riuscirci». Lo scambio non venne in alcun modo preso in considerazione, nonostante le speranze della famiglia del giovane.
Il 6 gennaio del 1945, ormai completamente fiaccato dalla malattia, dalla malnutrizione e dallo spossamento dovuto al lavoro gravoso che era comunque costretto a seguire, S. morì nell’infermeria del campo. Ne diede immediata notizia alla famiglia don Chiodini, uno dei cappellani presenti nel campo, che riuscì a spedire una lettera alla madre del giovane.