Renato Geymet nacque a Annecy, città alpina della Francia sudorientale, il 3 dicembre del 1925 da Giacomo e Margherita Fossetto. Quando era ancora molto piccolo si trasferì insieme alla famiglia a Torre Pellice, piccolo comune in provincia di Torino, dove partecipò alle attività del locale circolo Giac «San Martino», avendo modo di conoscere l’allora delegato Aspiranti e futura medaglia d’oro Sergio Toja e altri soci che furono protagonisti del movimento resistenziale come Martino Merotto ed Ermanno Rivoira.
L’8 settembre del 1943, ancora diciassettenne e studente, fu raggiunto dalla notizia della ratifica dell’armistizio di Cassibile che poneva ufficialmente fine alle ostilità con le forze angloamericane ma lasciava drammaticamente aperto il nodo circa i rapporti da tenere con l’ex alleato germanico. Constatata fin da subito la durezza dell’occupazione tedesca e la nascita della Repubblica sociale guidata da Mussolini, il giovane decise di intessere i primi contatti con il movimento resistenziale che andava costituendosi nel torinese. Fu solo a seguito della promulgazione dei bandi Graziani, però, che decise di rompere gli indugi e inserirsi tra le fila partigiane. Dal marzo del 1944, assunto il nome di battaglia di «Roosevelt», fece parte del Gruppo mobile operativo della 5ª divisione alpina Giustizia e libertà, che aveva assunto il nome del suo vecchio delegato Aspiranti Toja. Questa banda, formata da elementi selezionati tra quanti dimostravano una preparazione e un’attitudine maggiore alla guerriglia armata, operava principalmente intorno alle città di Asti e Torino.
Il 30 dicembre del 1944 la brigata nera Ather Capelli, proveniente da Torino e guidata dal tenente Spirito Novena, forte di circa duecento uomini accerchiò il paese di Campiglione Fenile, località della pianura pinerolese dove si era rifugiato il Gruppo mobile operativo. Per l’intera giornata i militi fascisti procedettero alla perquisizione sistematica di tutte le abitazioni della cittadina alla ricerca di partigiani e di attività clandestine. Alla fine delle operazioni tra i prigionieri individuati come ribelli vi fu anche G. che, dopo aver subito un durissimo interrogatorio e numerose sevizie volte a fargli confessare la sua responsabilità e rivelare informazioni utili alle attività di rastrellamento, venne fucilato sul posto senza un regolare processo.