Eugenio Maria Juvenal nacque il 16 maggio del 1923 a Pinerolo, in provincia di Torino, da Eugenio e Vittoria Maia Poet. Cresciuto in una famiglia di modeste condizioni economiche, fin da giovanissimo si avvicinò agli ambienti dell’associazionismo cattolico e, ben presto, si iscrisse al circolo Giac del paese natale.
Terminato il percorso scolastico, decise di dedicarsi alla carriera militare, arruolandosi nella Regia aeronautica. Ammesso all’accademia di Caserta, dopo un periodo di formazione gli venne assegnato il grado di sottotenente e si vide assegnato al comando del distretto militare di Pinerolo. Fu proprio in questa destinazione che venne raggiunto dalla notizia della caduta del regime e, successivamente, da quella della ratifica dell’armistizio di Cassibile. Nelle giornate che seguirono l’8 settembre, J. dovette dunque constatare la confusione creatasi tra i reparti italiani dovuta alla mancanza di direttive chiare da parte dei comandi militari. Determinato a non servire tra le fila della Wehrmacht e temendo di essere catturato per essere deportato nei campi in Germania, il giovane prima si rifugiò presso i suoi familiari, quindi si diede alla macchia per prendere contatti con i responsabili del movimento resistenziale che andava organizzandosi nel torinese.
Constatata ben presto la durezza dell’occupazione tedesca, il giovane decise di organizzare, insieme al compaesano Fiore Toye, un piccolo gruppo che riuniva renitenti alla leva repubblichina, studenti torinesi e giovani ex ufficiali dell’aeronautica provenienti dal distretto militare di Pinerolo. Postosi alla testa di questa formazione, coordinò alcune operazioni di sabotaggio delle linee di comunicazione nemiche, di recupero di armi e munizioni dalle locali caserme fasciste e di guerriglia contro pattuglie nazifasciste. Fu proprio questa multiforme attività che lo mise sotto la lente d’osservazione delle autorità che, già alla fine di ottobre del 1943, riuscirono a individuarlo e porlo in stato di arresto. Tradotto nelle Carceri nuove di Torino, per diversi giorni resistette a duri interrogatori volti a indurlo a confessare la sua responsabilità in seno al movimento resistenziale. Trinceratosi dietro un ostinato silenzio, dopo qualche settimana venne rilasciato per insufficienza di prove a suo carico.
Rimesso in libertà, J. volle riprendere immediatamente la propria attività partigiana. Per questo decise di raggiungere la 1ª divisione autonoma Val Chisone che, al comando del sergente degli alpini Maggiorino Marcellin «Bluter», operava principalmente nell’omonima valle e nella zona pedemontana. Distintosi particolarmente nel corso dei duri combattimenti sostenuti dalla sua formazione nella zona di Fenestrelle nel corso del maggio del 1944, fu nominato comandante di squadra con grado equiparato a sottotenente e gli venne assegnata la guida del gruppo sabotatori «Fratelli Caffer», destinato a operare nella pianura torinese. Dopo diverse operazioni di sabotaggio compiute su arterie stradali e ferroviarie, la banda fu protagonista delle incursioni nel distretto militare di Pinerolo e nella sede del presidio tedesco di Piscina.
Il 4 novembre del 1944, a seguito di delazione, la formazione venne accerchiata da preponderanti forze nemiche mentre si trovava in località San Martino di Cantalupa, frazione del comune di Cantalupa in provincia di Torino. Per tentare di rompere l’accerchiamento e sfuggire all’imboscata, J. e altri quattro ufficiali decisero di sganciarsi dalla postazione difensiva per spingersi in campo aperto e attirare su di loro il fuoco nemico. Mentre tentava di raggiungere le avanguardie nazifasciste, il giovane venne raggiunto da un colpo di mitraglia che lo lasciò esanime a terra.
Dopo la morte, in memoria dell’estremo sacrificio, una brigata della I divisione alpina autonoma Val Chisone assunse il suo nome. Nel dopoguerra, inoltre, gli venne assegnata la medaglia d’argento al valor militare con la seguente motivazione: «Fin dall’inizio partecipava attivamente alla lotta di liberazione, costituendo un gruppo armato; arrestato e ben tosto liberato, riprendeva immediatamente la sua attività quale comandante di una formazione. Cadeva eroicamente con l’arma in pugno mentre alla testa di un gruppo di ardimentosi proteggeva il ripiegamento dei suoi uomini su una posizione più arretrata onde sottrarli all’accerchiamento».