Mainardi Giorgio

Giorgio Mainardi
Immagine: Isacem, Fondo Giac
Nome: Giorgio
Cognome: Mainardi
Luogo di nascita: Pieve di Cadore
Provincia/stato: Belluno
Data di nascita: 07/06/1923
Luogo di morte: Palena
Provincia/Stato morte: Chieti
Data di morte: 23/11/1943
Ramo di Azione cattolica:

Sommario

Note biografiche

Giorgio Mainardi nacque a Pieve di Cadore, in provincia di Belluno, il 7 giugno 1923 da Giovanni e Maria Teresa Del Carlo, i quali ebbero anche altre tre figlie, tra le quali Silvana che avrebbe fatto parte della rete resistenziale di Torquato Fraccon. Dopo il trasferimento della famiglia a Vicenza, si iscrisse alla Gioventù italiana di Azione cattolica, entrando in relazione, attraverso l’assistente diocesano don Vincenzo Borsato, con il delegato studenti Franco Fraccon, Sergio Sala, Renato Dalla Palma, Gabriele Mozzi, che sarebbero tutti morti per le scelte resistenziali compiute. Nella militanza associativa, M. arrivò ad essere nominato delegato diocesano juniores. Dopo aver frequentato il liceo classico «Antonio Pigafetta», beneficiando dell’influsso di Mario Dal Pra, si iscrisse alla Facoltà di Medicina e chirurgia dell’Università di Padova, cominciando a prestare anche servizio all’ospedale civile di Vicenza come allievo interno di Giorgio Pototschnig. La famiglia, negli anni della guerra, sfollò nella vicina Longare. Dopo la caduta del fascismo, un articolo del suo antico professore di storia e filosofia apparso sul «Giornale di Vicenza» il 30 luglio 1943, richiamandosi «ai giovani che hanno fino a ieri nelle nostre scuole dato testimonianza a questa nostra idealità», li invitava a farsi «apostoli di quest’ordine nella libertà, in cui è divenuta lieta, anche ieri, la nostra giovinezza». All’uscita replicò l’«Avvenire» il 1° agosto successivo accusando Dal Pra di «propaganda» che «si insinuava ad intaccare nella gioventù studiosa le basi della fede». Lo stesso insegnante del liceo vicentino, il quale avrebbe compiuto una chiara scelta resistenziale, rivendicando l’atteggiamento mantenuto negli anni del regime, precisò poco dopo che la presa di posizione non significava «turbare le coscienze, ma educare alla ricerca fuori di ogni dogmatismo servile». La precisazione a seguire, premettendo il dovere della Chiesa di intervenire, troncò ogni possibile sviluppo del confronto: «Il prof. Dal Pra fino a poco fa era conosciuto quale un credente e apostolo della fede cattolica. Oggi non lo è più».

La disputa a distanza scosse M., inducendolo a confidarsi con don Primo Mazzolari, forse conosciuto a un’iniziativa promossa dalla Fuci, che il giovane studente frequentava. Scrivendo il 21 agosto al parroco di Bozzolo, dopo avere esternato il turbamento nella fede provato, confessò di volersi impegnare «alla luce di questa coscienza, in cui vive lo Spirito». Sul suo diario, appuntò una riflessione che attestava il tormento del momento: «La Chiesa custodisce la Parola di Dio ed ha, per divino mandato, anche il dovere di proporla e diffonderla: ma lo slancio della Parola, la ricerca della sua opportunità, il più rischioso esperimento sono affidati ad ogni cristiano, membro costruttore della chiesa di Dio. La Chiesa non è uno Stato Maggiore che dispone i piani di difesa o di attacco fino all’ultimo particolare, per cui nessun soldato possa muoversi senza un ordine scritto di movimento […]. Certe docilità supine e certe cieche obbedienze, espressioni del quieto vivere, sono forme di minorata personalità cristiana e di accidia del singolo. Non è quindi un ribelle il cristiano che, ascoltando il richiamo della propria responsabilità nella Chiesa, parla, agisce, soffre e testimonia secondo questa voce, espressione della sua Fede».

Dopo essersi confrontato con Dal Pra sui «tormenti che albergano nel cuore degli uomini», il 3 settembre giunse anche la risposta di Mazzolari, il quale, ringraziando per essere stato il tramite nel «riaccendere la fede nel tuo travaglio interiore», gli scrisse: «Vengono giorni, se pur non sono già incominciati, in cui il nostro impegno con Cristo non conoscerà limiti. La salvezza del nostro povero e caro Paese è affidata alla nostra Carità».

In seguito all’armistizio dell’8 settembre, gli interrogativi brucianti si accentuarono, ponendo M. di fronte alla scelta decisiva, che alla fine non poteva che essere in favore della Resistenza. Entrato in contatto con l’organizzazione che Torquato Fraccon stava approntando, fu incaricato di stabilire una relazione con il governo del Regno del Sud, per avviare contatti con gli alleati e ottenere l’armamentario indispensabile per le formazioni partigiane che si andavano costituendo nell’area vicentina. L’11 ottobre 1943 comunicò ai genitori la decisione presa: «Parto, perché non posso non partire, non posso non obbedire all’esigenza della mia coscienza, che chiama con insistenza, che urge, che mi sospinge. Se diverse sono le esigenze vitali delle vostre anime se contrarie alle mie sono le leggi, e le vostre interpretazioni a queste leggi della vita, purtroppo è duro, ma non so cosa fare: è così e basta. Ognuno di noi obbedisce ai suoi richiami, al suo destino, alle sue intime esigenze. Io non giudico le vostre. Io, rispetto ed obbedisco alle mie. Mi sono impegnato io e non un altro. Unicamente io e non un altro». Dopo aver ripreso quasi alla lettera questo passaggio di un noto libro di Mazzolari, M. soggiunse: «Se qualcosa sento di potere – e lo voglio fortemente – è su di me, soltanto su di me. Poiché il mondo si muove se noi ci muoviamo, si muta se noi ci mutiamo, si fa nuovo, se alcuno si fa nuova creatura, muore se ognuno di noi muore a sé stesso. L’ordine nuovo incomincia se alcuno si sforza di divenire un uomo nuovo. Mi sono impegnato con la vita, perché non potrei non impegnarmi. Nessuno mi ha sospinto, forzato la mano, suggestionato. Nessuno al di fuori di me». In questa lunghissima lettera ai genitori, non potevano mancare anche le motivazioni più profonde: «Questo non è vivere religiosamente la vita, questo non è compartecipare all’Anima dell’Universo, questo non è vivere con Cristo, in Cristo, quando il corpo di Cristo è così martoriato, ferito, sofferente. La nostra religione è universale, è cattolica, perché sa che il suo punto di riferimento, il suo sostanziale, il suo motivo di essere universale è non sul Tabor, ma sul Calvario. Così io penso. Così voglio sia, la mia religione, vissuta. Queste sono le mie idee, la sintesi del mio travaglio, la nota dominante nel tormento della sinfonia della mia vita che si trova al suo ventesimo spartito. Ripeto: mi sento responsabile di tutto e di tutti. Incominciamo da noi a riformare il mondo, a convertire il mondo, a far nuovo il mondo, riformando, convertendo, facendo nuovo anzitutto il nostro essere […]. Domani quando verrà la mia ora, quando dovrò morire, come tutti lo devono, non sarà né il papà e né mamma, né il confessore, né l’Assistente religioso, né il Parroco, né alcun altro, ma io, che dovrò rendere conto di ciò che ho fatto, dinanzi a Dio. Questa è religione secondo me, questa è la giusta, meglio, la più giusta interpretazione religiosa della vita».

Dopo aver fatto la scelta della clandestinità, il 3 novembre, di ritorno a casa di passaggio, lasciò un biglietto ai familiari: «Riparto per assolvere al mio dovere, per camminare in quella strada ove milioni di fratelli camminano soffrendo e morendo, riparto perché l’ideale mi urge, la carità verso i fratelli mi sospinge irresistibile, perché questa è, chiara, la linea vocazionale di questa parentesi della mia vita. Dio sia con voi e con me, nella vostra e mia sofferenza. Vi scriverò, tornerò a missione compiuta, a riprendere la mia vita normale». Il 10 novembre raggiunse Sulmona, dove fu ospitato dal vescovo Luciano Marcante per alcuni giorni. Il 22 novembre, dopo aver partecipato alla sua ultima messa, probabilmente insieme ad altri due giovani che avevano compiuto la stessa scelta, anche se le testimonianze al riguardo sono discordanti, decise di attraversare il fronte. Il 23 novembre, mentre stava per passare le linee al Guado di Coccia sulla Maiella, fu sorpreso e ucciso dai tedeschi.

Solamente dopo otto anni di ricerche, nel 1951 le spoglie furono ritrovate a Castel di Sangro – senza una spiegazione plausibile – e fu celebrato il funerale a Sulmona, dove fu anche tumulato nel cimitero cittadino.

L’11 giugno 1947 l’Università di Padova gli conferì la laurea honoris causa in Medicina.

Fonti e bibliografia

  • Angelo Gemo, Giorgio Mainardi, in «Gioventù», 27 ottobre 1945.
  • [Anna Mainardi (a cura di)], Ricordo di Giorgio Mainardi, Cooperativa tipografica degli operai, [Vicenza 1983].
  • In memoria di Giorgio Mainardi, s.n.t. [1963].
  • Dario Borso, Il 1943 di Mario Dal Pra, in «Italia contemporanea», (2011), 262, pp. 97-106.

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