Silvio Monica nacque il 24 settembre del 1928 a Neviano degli Arduini, piccolo comune in provincia di Parma, da Antonio ed Elvira Ugolotti, primo di tre fratelli. Cresciuto in una famiglia di tradizione contadina, nel paese natale ebbe modo di attendere agli studi elementari e medi e, inoltre, di iscriversi al locale circolo Giac «Guido Maria Conforti», prima come aspirante e successivamente come socio effettivo.
A soli quindici anni, ancora impegnato negli studi liceali, M. dovette assistere agli eventi che condussero alla fine del regime fascista e alla successiva ratifica dell’armistizio di Cassibile che poneva ufficialmente fine alle ostilità con gli angloamericani. Al contempo, però, il proclama dell’8 settembre letto dal maresciallo Pietro Badoglio al microfono dell’Eiar, non chiariva i caratteri del rapporto che le forze armate italiane avrebbero dovuto avere con l’ex alleato germanico. I tedeschi, già preparati all’eventualità, si mossero fin da subito per riuscire a occupare tutti i centri nevralgici dell’Italia settentrionale e centrale.
Fu in questo contesto che S., constatata la durezza dell’occupazione nazista e la nascita della Repubblica sociale italiana guidata da Mussolini, decise di prendere contatti con il movimento resistenziale attivo nella zona di Parma e, già dall’inizio di novembre del 1944, di inserirsi tra le fila della 43ª Brigata Sap Garibaldi. Assunto il nome di battaglia di «Eroe», probabilmente assegnatogli dai compagni di banda, vista la giovane età fu attivo in supporto alle operazioni del gruppo con compiti di vigilanza e staffetta.
Durante una vastissima operazione di rastrellamento operata da reparti nazifascisti nella zona intorno a Parma, nella notte del 1° febbraio del 1945 M. fu individuato da una pattuglia mentre, insieme al cugino Marcello Cavazzini (anche lui giovanissimo), si trovava di vedetta su un grande mulino nella zona collinare tra la frazione di Quinzano, nel comune di Langhirano, e Neviano degli Arduini. Tradotto nel presidio tedesco di Ciano d’Enza, il giovane fu a lungo interrogato e percosso al fine di indurlo a rivelare informazioni utili all’individuazione della cellula partigiana con la quale collaborava.
La mattina del 9 febbraio, dopo una settimana di prigionia, il suo nominativo fu tra il novero dei condannati a morte per rappresaglia a seguito di un attacco partigiano che aveva colpito un convoglio militare nazista lungo la via Emilia e che aveva provocato la morte di tre soldati germanici. Il gruppo dei ventuno selezionati venne così condotto nei pressi di Villa Cadè, vicino Reggio Emilia, e gli uomini furono fucilati sul posto. A monito per la popolazione, i corpi vennero lasciati esposti per le successive ventiquattro ore senza che nessuno potesse toccarli.