Giovanni Panebianco nacque a Mondovì, in provincia di Cuneo, il 20 aprile 1924 da Giovanni Battista e Teresa Vernessa. Cresciuto in una famiglia di modeste condizioni economiche, fin da giovanissimo frequentò con assiduità gli ambienti dell’oratorio della parrocchia del suo paese natale. Appena ne ebbe la possibilità, inoltre, decise di iscriversi al circolo della Giac «Fides», animato dall’allora assistente don Giuseppe Bruno che, dopo l’8 settembre, sarebbe stato protagonista della lotta di liberazione dal nazifascismo nel monregalese.
Nel 1943, non ancora ventenne, il giovane venne richiamato per assolvere gli obblighi di leva e prestare servizio sotto le armi. Passò un periodo piuttosto breve presso la base per la formazione delle reclute di fanteria presente proprio a Mondovì, mentre non è noto a quale servizio venne assegnato durante il tempo trascorso come militare. Si può invece supporre che, al momento della ratifica dell’armistizio di Cassibile e successivamente allo sbandamento di gran parte dei reparti del Regio esercito, egli decise di far ritorno a casa e di rimanervi per qualche tempo. Solo nel luglio del 1944, infatti, P. decise di inserirsi tra le fila della Brigata autonoma Val Pesio delle formazioni autonome Rinnovamento, che operava principalmente nell’omonima valle. Dopo un periodo trascorso nella banda, caratterizzato da efficaci azioni di guerriglia contro gli occupanti, ma anche da continue riorganizzazioni della formazione causate dalle operazioni di rastrellamento condotte dai nazifascisti, nel corso di febbraio del 1945 il giovane venne individuato e catturato insieme ad alcuni compagni da militi della Rsi.
Rinchiusi nel sottotetto del castello di Carrù, in provincia di Cuneo, i partigiani furono a lungo interrogati per indurli a rivelare informazioni relative alla composizione e alla posizione delle formazioni della Resistenza e i nominativi dei loro compagni di battaglia. Trincerati dietro un ostinato silenzio e fiduciosi di poter rientrare presto in uno scambio di prigionieri, i detenuti furono in verità condannati a morte nel pomeriggio del 6 marzo come rappresaglia a seguito dell’attentato di due giorni prima alla Pedaggera, in cui persero la vita quattro soldati fascisti. La sera stessa P. e gli altri giovani catturati vennero fatti uscire dal luogo di prigionia e indirizzati verso la chiesa cittadina. Mentre camminavano, però, vennero tutti colpiti alle spalle da scariche di mitra dei carcerieri fascisti. Per ordine del tenente Attilio Rizzo, comandante del presidio locale della Rsi, i corpi esanimi dei partigiani vennero lasciati insepolti per l’intero giorno seguente, perché fossero ben visibili alla popolazione locale e servissero come monito per quanti collaboravano con il movimento resistenziale.