Antonio Seghezzi nacque il 25 agosto 1906 a Premolo, in provincia di Bergamo, secondogenito dei dieci figli di Romano e Modesta Seghezzi, i quali avevano lasciato i precedenti lavori per dedicarsi alla coltivazione di un piccolo terreno e soprattutto alla cura di alcune mucche, vendendo il latte con l’aiuto dei figli. Dopo aver frequentato le elementari, nel 1917 entrò in seminario, rimanendovi per tutti i cicli fino al corso teologico. Dal 1924 al 1926 frequentò l’Istituto di Scienze sociali di Bergamo e conseguì il titolo dottorale, discutendo la tesi L’enciclica sulla Regalità di Cristo in contradittorio. Fu ordinato sacerdote nel 1929 dal vescovo Luigi Maria Marelli, il quale lo destinò immediatamente, come coadiutore, alla parrocchia di Almenno San Bartolomeo. Nell’ottobre del 1932, S. fu incaricato dell’insegnamento di lettere nel seminario di Bergamo e nel 1935, allo scoppio della guerra d’Etiopia, fu inviato come cappellano militare, svolgendo il proprio servizio all’ospedale da campo 430, vicino ad Adua. Richiamato nel 1937, il 1° aprile il nuovo vescovo Adriano Bernareggi lo nominò assistente diocesano della Gioventù italiana di Azione cattolica, abbinando anche l’incarico di segretario della Giunta. A partire dal 1940, risiedette nel Patronato San Vincenzo di Bergamo, distinguendosi per un’intesa attività di direzione spirituale dei giovani, che seguì anche con continui scambi di lettere con i richiamati al fronte, costruendo a distanza una tela associativa. In seguito all’armistizio dell’8 settembre 1943, si profuse nell’assistenza ai prigionieri alleati fuggiti dal campo di Grumello del Piano e ai soldati che non volevano rispondere alle ingiunzioni dei tedeschi di presentarsi al comando e consegnare le armi. S. sostenne anche la scelta resistenziale dei giovani – in collegamento con Enzo e Giacinto Gambirasio, impegnati con Betty Ambiveri nella banda Decò e Canetta – non pochi dei quali appartenevano all’associazione, che venivano accompagnati in montagna, insieme ad altri sacerdoti bergamaschi. L’arresto di uno di questi, in seguito a una delazione, portò i tedeschi sulle sue tracce ma, avvisato in tempo, riuscì ad allontanarsi. Indotto dal vescovo a consegnarsi, anche per timore di ritorsioni sui giovani della Giac, confidò: «Il pensiero che possa andarne di mezzo l’Azione cattolica e che magari qualche dirigente finisca a pagare per me, non mi dà pace. Farò il mio dovere». Il 27 ottobre 1943 S. si presentò al comando delle SS, dove fu interrogato e poi rinchiuso nel carcere di Sant’Agata. Il 21 novembre successivo, nonostante la linea di difesa improntata a risvolti umanitari che non comportavano la partecipazione ad azioni militari, fu condannato a 5 anni di lavori forzati, ridotti a 3 il giorno dopo in seguito alla domanda di grazia. Il 23 dicembre fu condotto al carcere militare del Forte San Mattia di Verona, per poi essere deportato l’ultimo giorno dell’anno a Monaco di Baviera nella prigione di Stadelheim e di qui a febbraio passò a Kaisheim. Costretto a lavori forzati molto pesanti, dopo un ricovero in infermeria fu destinato a una fabbrica di proiettili a Löpsingen. Il 20 giugno S. fu ricoverato nuovamente nell’infermeria del campo di Kaisheim nel reparto infettivi, dove si consumò lentamente. Nell’aprile del 1945 fu trasferito con altri prigionieri al lager di Dachau, che fu liberato poco dopo dagli alleati. S., nelle condizioni in cui si trovava, fu ricoverato in un ospedale da campo, morendo il 21 maggio 1945 per emottisi. Sepolto nel locale cimitero, nel 1952 una lettera del parroco informò don Marco Farina, delegato vescovile dell’Azione cattolica di Bergamo, del ritrovamento della tomba. Il corpo fu riportato in Italia, dove fu sepolto nel cimitero del paese natale.
Nel 1999 la diocesi di Bergamo chiuse il processo di beatificazione, trasferendo gli atti alla Congregazione per le cause dei santi. Nel 2020 il congresso dei teologi ha espresso voto favorevole, in attesa del riconoscimento dell’eroicità delle virtù.