Mario Simonazzi nacque a Borzano, piccola frazione del comune di Albinea in provincia di Reggio Emilia, l’8 settembre del 1920 da Angelo, falegname, e Paolina Schiatti. Dopo aver atteso gli studi elementari, venne ammesso al collegio di San Rocco che, sotto la direzione di don Dino Torreggiani, in quegli anni permetteva ai giovani – tra i quali qualche anno prima vi era stato anche Giuseppe Dossetti – di formarsi in un ambiente che assicurava una certa dose di impermeabilità rispetto alla propaganda fascista. Fu durante questo periodo che S. divenne socio della Giac e, visto il suo impegno e la dedizione espressa verso l’associazione, fu anche nominato delegato Aspiranti del suo circolo. Terminati gli studi ginnasiali, nel febbraio del 1937 fu assunto nel settore tecnico-amministrativo delle Officine meccaniche reggiane.
Vista la sua occupazione in una fabbrica ritenuta di fondamentale interesse militare, allo scoppio della Seconda guerra mondiale il giovane riuscì a evitare in un primo momento il richiamo sotto le armi. Nell’estate del 1943, tuttavia, dovette presentarsi per svolgere un periodo di formazione militare a Roma. Fu proprio nel periodo trascorso nella capitale che venne raggiunto dalla notizia della caduta del regime fascista e, successivamente, da quello della ratifica dell’armistizio di Cassibile che poneva ufficialmente fine alle ostilità con le forze alleate. Per non essere costretto a consegnarsi ai tedeschi abbandonò il proprio posto e, rientrato fortunosamente a casa, poté riprendere il lavoro presso le Officine fino a gennaio dell’anno successivo. Nei primi giorni del 1944, infatti, lo stabilimento fu seriamente danneggiato da un bombardamento aereo alleato e, per continuare la produzione, la fabbrica venne spostata nella zona di Varese. Per non lasciare la propria famiglia S. rifiutò il trasferimento e, temendo di essere raggiunto dai bandi di reclutamento della Rsi, si dette alla clandestinità. Grazie ai precedenti contatti intessuti con i responsabili del movimento resistenziale nel reggiano – assieme all’amico Giorgio Morelli si era già dedicato alla pubblicazione dei «Fogli tricolore», di tono chiaramente antifascista –, egli poté raggiungere le formazioni partigiane attive nella zona.
Assunto il nome di battaglia di «Azor» – che ricalcava quello di un personaggio del giornale per ragazzi «Il Vittorioso» –, nell’agosto del 1944 S. organizzò e coordinò una banda partigiana radunando diversi giovani provenienti dal suo paese natale. In questo periodo, a causa della profonda riorganizzazione delle formazioni della Resistenza dovuta all’opera di rastrellamento dei nazifascisti, egli divenne il comandante della 4a zona delle Squadre d’azione patriottica (Sap). Fu in questo ruolo che, nell’autunno dello stesso anno, il giovane si distinse in diverse azioni di sabotaggio e in operazioni volte al reperimento di armi e munizioni.
Nel gennaio del 1945, visto il continuo afflusso di uomini che raggiungevano le formazioni partigiane, il comando piazza, per volontà del Cln provinciale, decise di suddividere ulteriormente in brigate le Sap. S. venne dunque nominato vicecomandante della 76a brigata «Angelo Zanti» e, cambiato il proprio nome di battaglia in «Salardi», raggiunse la sua nuova zona di operazioni tra la via Emilia e la collina a ridosso dell’Appennino. Secondo alcune ricostruzioni, la nuova qualifica ottenuta, pur rappresentando il giusto riconoscimento per le capacità organizzative e militari dimostrate nei mesi di attività partigiana, era soprattutto un espediente per allontanare un comandante carismatico e apprezzato dalla sua zona di operazione, sostituendolo con un partigiano comunista che potesse essere maggiormente disciplinato alle direttive politiche provenienti dalla frangia del Cln che richiedeva, nella nuova fase di lotta, una più incisiva azione militare.
Il 23 marzo del 1945, mentre la sua formazione era fatta oggetto di una vastissima operazione di rastrellamento da parte delle forze nazifasciste, S. venne dichiarato disperso e il suo corpo ritrovato solo il 3 agosto, sepolto in un bosco in località Lupo, nel comune di Vezzano sul Crostolo, non distante da dove era scomparso. Nell’immediato dopoguerra la notizia della sua morte venne eliminata dalla narrazione degli eventi di quel periodo. Solo in seguito, l’amico Giorgio Morelli «Il solitario» portò alla ribalta la questione attraverso tre articoli polemici usciti tra l’ottobre e il dicembre del 1945 dal significativo titolo Chi ha ucciso Azor?, pubblicati sul periodico «La nuova penna», che esortavano esplicitamente a fare chiarezza sulla possibilità che S. fosse caduto per mano di compagni partigiani. Nel 1951 i presunti responsabili, due partigiani comunisti, furono processati per l’uccisione del vicecomandante partigiano. Dichiaratisi innocenti, al termine del procedimento uno dei due fu assolto per insufficienza di prova, l’altro invece non si presentò al processo e venne ritenuto colpevole dalla Corte d’Assise d’appello di Bologna e giudicato in contumacia.