Giuseppe Cederle nacque a Montebello Vicentino, piccolo paese in provincia di Vicenza, il 16 agosto 1918 da Antonio Cederle e Teresa Murano. Di umili origini, dedicò gran parte della sua giovinezza alle attività dell’Ac locale. Nel paese natale, infatti, gli venne affidata prima la carica di delegato aspiranti e, successivamente, quella di presidente dell’associazione di Montebello. Fin da ragazzo sentì molto forte la vocazione per il sacerdozio. In un appunto giovanile del suo diario egli scrisse: «Nacqui con una brama: il Sacerdozio e la Missione. È questa aspirazione che si fece sempre più ardente da quando, ancora fanciullo, mi intrattenevo ad abbellire il mio altare. Venne poi un’epoca triste, assai dolorosa per il mio spirito, ma fui provvidenzialmente sostenuto, forse alla vigilia di cadere in chissà quale abisso, dal mio Cappellano, che mi procurò un asilo nel collegio “Maria Immacolata”, dei Giuseppini di Montecchio Maggiore (Vicenza)». Presso l’Istituto dei Giuseppini C. frequentò le tre classi della scuola media.
Al termine di questo periodo si iscrisse al Collegio dei Padri Somaschi di Casale Monferrato, in provincia di Alessandria, per attendere agli studi superiori e dove, nel corso degli anni di sua permanenza all’interno del convitto, fu anche nominato istitutore. L’istituto, che peraltro accolse lo scrittore Cesare Pavese negli anni tra il novembre 1943 e la primavera del 1945, ricorda ancora oggi l’attività di C. attraverso l’incisione del suo nome e dell’onorificenza da lui ricevuta su una lastra che commemora gli alunni del collegio morti nel corso del secondo conflitto mondiale. Ottenuto il diploma, decise di iscriversi alla facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. In questi anni partecipò con grande fervore alle attività della Fuci milanese.
Il 27 febbraio 1941, con l’Italia già impegnata da diversi mesi nei vari teatri di battaglia di guerra, C. venne richiamato per prestare il proprio servizio di leva e sul suo diario appuntò «una nuova vita mi attende; da essa uscirò uomo». Dopo un breve periodo di formazione, si vide destinato al 61° Reggimento fanteria motorizzato e successivamente aggregato al 14° sottosettore di copertura. C. ebbe grandi difficoltà ad abituarsi alla dura vita di caserma anche a causa del complicato rapporto che lo legava ai suoi commilitoni. Lo sconforto di essere mal considerato dai suoi stessi compagni sotto le armi traspare chiaramente da una lettera che ebbe modo di inviare al suo padre spirituale durante il periodo di formazione militare. Nella missiva con amarezza considerava: «perché questi giovani non capiscono Cristo? Perché bestemmiano? Non posso più vivere così; presto domanderò di andare al gioco per dimostrare a questi che ci calunniano che anche noi, che facciamo o desideriamo la Comunione ogni giorno, siamo più pronti a morire di loro». Promosso al grado di sergente, nel settembre del 1941 fu inviato a Napoli per frequentare la Scuola allievi ufficiali di complemento di fanteria. Nel maggio dell’anno successivo venne poi nominato sottotenente e destinato con questo grado al deposito del 39° Reggimento fanteria e, quindi, aggregato al XXXII battaglione d’istruzione dislocato a Nocera Inferiore.
Attese sempre con interesse gli aggiornamenti sugli eventi bellici della patria in armi e, raggiunto dalla notizia delle sconfitte subite dall’esercito italiano in Nordafrica nel corso dei primi mesi del 1943, scrisse: «ho sentito con amarezza la perdita di Tripoli. Mi sono figurato l’Italia nella confusione della sconfitta, e stasera in Chiesa ho pregato così – Tu che sei più forte di tutti noi e più buono di tutti noi, vedi, o Signore, il bisogno della nostra Patria! –».
Alle sue preoccupazioni per quanto stesse accadendo lontano dall’Italia ben presto C. dovette aggiungere quelle per gli avvenimenti nel fronte interno. Il 25 luglio 1943, infatti, cadde il regime fascista e l’8 settembre 1943 il nuovo governo, guidato dal maresciallo Pietro Badoglio, decise di firmare l’armistizio di Cassibile. Rimanendo fermo nella convinzione di tenere fede al giuramento fatto al re, seppur costretto a constatare lo scioglimento delle fila del regio esercito, decise di non allontanarsi dal reparto che guidava e di continuare a operare in qualità di volontario. Durante i mesi che seguirono quegli eventi, dovette trasferirsi diverse volte. Particolarmente importante fu per lui il periodo trascorso con i suoi uomini a Cerreto Sannita, in provincia di Benevento, dove ebbe modo di frequentare il gruppo di Ac presente nella cittadina, prendendo parte di frequente alle attività promosse in quel periodo. Allo stesso modo a Manduria di Taranto, dove si trovava nell’ottobre del 1943, ebbe modo di essere ugualmente partecipe alla vita associativa di cui scrisse anche nel suo diario: «Ieri sera eravamo una trentina all’ora di adorazione, tutta per noi giovani di A.C. Stamattina, oltre una cinquantina di allievi si sono accostati alla Comunione».
Quando finalmente giunse al suo battaglione la richiesta di volontari per raggiungere il nuovo fronte aperto contro l’invasore nazista, C. chiese di poter essere inquadrato tra le fila del nuovo esercito di liberazione che si andava costituendo. La sua domanda venne accettata il 2 dicembre del 1943 e fu immediatamente assegnato, col grado di tenente, al 67° Reggimento fanteria del gruppo di combattimento «Legnano». Convinto della propria scelta e consapevole della responsabilità a lui affidata, scrisse sul suo diario: «I miei ragazzi cantano gioiosi, e ne hanno diritto, perché sono i più duri e i più eroici figli d’Italia. Nell’ora delle più vergognose defezioni, dei più criminali tradimenti, questi giovani credono ancora in una Patria che non muore, e cantano Fratelli d’Italia, l’Italia s’è desta». Ottenuta la qualifica di istruttore, venne assegnato alla Scuola allievi ufficiali e conseguentemente allontanato dalla zona di guerra. Ben presto però, rifiutando i vantaggi che aveva ottenuto con la promozione, chiese di accompagnare i propri allievi al 3° Plotone, I Compagnia del 67° Fanteria e di poter rimanere insieme a loro per guidarli al fronte.
Nel corso degli ultimi mesi del 1943 ai neonati reparti dell’esercito di liberazione venne affidato il compito di organizzare e coordinare la conquista di «Quota 343» a Monte Lungo di Mignano, presso Montecassino, zona di fondamentale importanza strategica e importante caposaldo contro le posizioni tedesche che occupavano il territorio. L’8 dicembre 1943 il reparto di C. si trovò dunque a dover adempiere questo difficile compito, aprendo la grande offensiva contro le truppe nemiche. Pur essendo stato nei primi momenti della battaglia gravemente ferito a un braccio, riuscì a riprendere il suo posto per guidare i soldati e non lasciarli senza indicazioni dell’ufficiale di riferimento. La difficoltà maggiore dell’operazione fu quella di entrare in contatto con i reparti nemici che, arroccati in caverne, riuscivano ad attaccare con grande veemenza potendo contare su una relativa copertura naturale. Contenuta la prima azione dei fanti italiani, i tedeschi risposero con una controffensiva volta a stroncare il tentativo di conquista. Il tenente C. fu in prima linea nel tentativo di resistere alle truppe tedesche, ma ben presto venne colpito al capo da una scarica di mitra che lo fece cadere a terra senza possibilità di riprendere la battaglia. Decise allora, come estremo gesto, di trarre da sotto la giacca la bandiera tricolore che custodiva in attesa della conquista del Monte Lungo e la lanciò verso le posizioni nemiche, ordinando ai suoi soldati di fare di tutto affinché fosse portata avanti.
Alla memoria del sottotenente di complemento C., inquadrato tra le fila del 67° Reggimento fanteria mitraglieri, venne decretata la medaglia d’oro al valor militare con la seguente motivazione: «Benché appartenente a reparto non impegnabile, otteneva di essere inquadrato in prima linea al comando di un plotone che conduceva all’assalto contro i tedeschi sistemati in caverne in terreno difficilissimo, sotto micidiale tiro di mitragliatrici e bombe a mano. Con un braccio fracassato, incitava i suoi uomini a contenere il contrattacco nemico gridando: “Ho dato un braccio alla Patria, non importa, avanti per l’onore d’Italia”. Colpito a morte trovava ancora la forza di trarre di sotto la giubba una bandiera tricolore che scagliava in un supremo gesto di sfida contro il nemico additandola ai suoi soldati perché la portassero avanti. — Quota 343 di Monte Lungo (Cassino), 8 dicembre 1943». Quella di C. fu la prima medaglia d’oro concessa a un militare del Corpo italiano di liberazione dopo la firma dell’armistizio.