Nasce a Città di Castello il 26 aprile 1883, da Augusto, umile artigiano, che era stato in gioventù garibaldino e che gli trasmise l’amore per l’Italia, e da Anna Martinelli, donna profondamente credente, da cui apprese le prime verità di fede ed uno stile di vita improntato alla carità. Compie gli studi nella città natale, conseguendo il diploma delle scuole tecniche comunali.
Per la sua formazione personale è decisiva la partecipazione alla vita del Circolo Nova Juventus, fondato e diretto dal sacerdote don Enrico Giovagnoli: in questa esperienza associativa, aperta ai fermenti innovatori in campo ecclesiale e sociale, maturano le sue scelte di vita. Il Circolo, che pubblica anche il periodico «Gioventù Nova», infatti punta a una formazione ispirata a solidi principi cristiani, coniugati con l’attenzione al miglioramento di vita dei ceti meno abbienti, e questo suscita critiche ed avversioni sia da parte dei socialisti e degli anticlericali, particolarmente attivi in Umbria, sia da parte dei cattolici conservatori, che l’accusano di modernismo. In seguito, don Giovagnoli e i suoi collaboratori accettano di aderire alla Società della gioventù cattolica e all’Unione popolare italiana, per ribadire l’obbedienza alla Chiesa ed al Papa, pur continuando le aperture alla “sana” modernità, in virtù del principio di obbedienza ai dogmi della fede e della morale e dell’apertura ai fermenti in campo sociale e politico.
Quando per motivi di lavoro lascia Città di Castello per Faenza, G. non tronca i legami con il luogo natio, pur essendo molto impegnato professionalmente, con incarichi di responsabilità nell’ambito del movimento cooperativistico.
Allo scoppio del primo conflitto mondiale, parte volontario e si distingue nelle varie circostanze, tanto da meritare, durante il conflitto, due medaglie d’argento, due di bronzo e diverse croci di guerra al valor militare; viene anche promosso capitano, con la motivazione che gli riconosce «valore, bontà d’animo, spirito altruistico, massimo ascendente, educatore di soldati, coraggioso».
Conclusa la guerra, G. torna a Città di Castello e riprende a pieno ritmo il suo lavoro, partecipando anche alle attività politiche del Partito popolare, di cui è co-fondatore e segretario provinciale, alla vita della sezione locale dei mutilati ed invalidi di guerra, di cui diviene presidente, e curando l’amministrazione dei beni ecclesiastici, grazie alla piena fiducia del vescovo mons. Carlo Liviero. È una personalità amata dalla popolazione, mentre al contrario è inviso dal fascismo, da cui subisce violenze, senza però piegarsi mai, continuando a svolgere un’opera continua in favore di reduci, poveri e perseguitati.
Alla caduta del regime nel 1943, assume a viso aperto le responsabilità dell’ora, senza nascondersi, come esponente principale del comitato antifascista. Tiene le file dell’attività partigiana nella zona alto-tiberina fino a quando è arrestato in curia il 5 maggio 1944, come ricorda anche l’allora giovane prete tifernate mons. Pietro Fiordelli, in seguito vescovo di Prato. G. mantiene un comportamento fiero e sereno durante gli interrogatori subiti e, nonostante il vescovo mons. Filippo Cipriani interceda di persona presso il comando tedesco, ricordandone il ruolo eroico svolto nella Grande guerra, è condannato alla fucilazione.
Si prepara con calma alla morte, pregando durante la notte; alle ore 5,30 del mattino è fucilato sul greto del torrente Scatorbia, senza ricevere i conforti religiosi che ha espressamente richiesto. Ai suoi carnefici ha già cristianamente perdonato.
Nel suo testamento spirituale, si raccomanda con devozione alla Madonna e si augura che i nipoti crescano nella fede dei padri e nell’amor patrio, raccomandandogli di non essere vendicativi, ma di affidarsi alla Provvidenza e di essere caritatevoli.
In memoria, gli viene conferita la medaglia d’oro al valor militare.