Giuseppe Caron nacque il 13 gennaio del 1926 a Nove di Bassano, in provincia di Vicenza, da Francesco e Caterina Bernardi. Subito dopo la sua nascita la famiglia dovette trasferirsi a Brugine, piccolo paese vicino Padova, dove i genitori avevano ottenuto la concessione di alcuni campi a mezzadria. Come da tradizione contadina C. crebbe in una famiglia molto numerosa e in un ambiente imperniato su una profonda religiosità tanto che fu iscritto appena possibile al locale circolo della Giac. Nel tempo, visto il suo impegno e la serietà con la quale partecipava alle attività dell’associazione, ebbe sempre maggiori responsabilità fino a esserne designato presidente.
Dopo aver frequentato le scuole elementari, il giovane si trasferì a Torino perché grazie all’interessamento di don Gelindo Rizzolo, cappellano di Brugine, riuscì ad essere ammesso al collegio tenuto dai salesiani. In seguito all’ingresso dell’Italia nel secondo conflitto mondiale e ai duri bombardamenti del capoluogo piemontese da parte delle forze angloamericane, C. decise di ascoltare le richieste della famiglia e di far ritorno a casa. Compiuti sedici anni, sempre su interessamento di don Rizzolo, ebbe la possibilità di entrare come viceprefetto all’Istituto agrario Padre Giovanni Bonsignori di Remedello Sopra, in provincia di Brescia. La possibilità di non gravare sulle finanze familiari per continuare gli studi gli permise di continuare il percorso scolastico fino al quinto anno di perito agrario. Fu nel corso dell’ultimo anno, infatti, che gli eventi bellici causati dalla ratifica dell’armistizio di Cassibile lo costrinsero a interrompere gli studi e a far di nuovo ritorno a casa.
Dopo aver osservato i caratteri della tragica occupazione tedesca dell’Italia centrale e settentrionale e la nascita della Repubblica sociale italiana, C. cominciò a maturare una chiara coscienza antifascista e a interessarsi del dibattito politico e dello sviluppo della situazione bellica nel paese. Sul diario personale espresse le sue idee circa gli eventi che condussero alla scelta di partecipare alla Resistenza: «Passato l’anno 1944. Passò tra il mormorio di una guerra che per l’Italia fu rovina e morte. Vedemmo così, ancora una volta, scendere attraverso le belle Alpi, che dell’Italia corona sono, quell’infame popolo, che mi risuona come funebre rintocco di campana. […] Ed ecco quel popolo, come aquila, scende le valli, rapina cose e uomini e li costringe ad una vita schiva e pericolosa. Porta via, in taluni paesi, donne, dopo aver incendiato e distrutto le loro case. L’Italia si scinde in due campi di lotta. È l’ora terribile della prova del fuoco, del castigo. S’accende una guerra in cui i fratelli uccidono i fratelli».
Presi contatti con il movimento resistenziale, a cavallo tra il 1944 e il 1945 si inserì tra le fila della brigata Guido Negri, partecipando ad alcune azioni di sabotaggio e guerriglia contro le postazioni nazifasciste. In particolare, C. fu attivo nelle ultime settimane di occupazione e venne impegnato in molteplici operazioni di carattere militare e di formazione politica e sociale. Il 13 aprile, vedendo ormai prossima la fine del regime, scriveva sul suo diario: «Ormai il fascismo si trova alle ultime ore di vita […]. Auguriamoci che la santa e vera democrazia risolva il problema nazionale. Certo, però, dobbiamo pagare la sconfitta, ma guai se ci verrà toccato il territorio strettamente nazionale». Ancora, il giorno successivo, tornava sugli stessi argomenti: «Chi segue questi giorni decisivi della vita nazionale e non si stente pienamente italiano, questi è un vero delinquente. Oggi si discute ancora come nel recente 1914-1918, sull’italianità di Trieste e dintorni. I confini naturali ce lo dicono, i morti lo comandano, noi lo vogliamo. Le doline del Carso sono testimoni di atti eroici: non si può rinnegare tanto sacrificio. E oggi chi sarebbe colui che con moto di oltraggio venderebbe ad un altro popolo, qualunque esso sia un solo metro di territorio nazionale?».
Il 28 aprile, dopo aver «bruciato delle carte» compromettenti che teneva nella sua stanza per non correre il rischio di farle cadere in mano dei nazifascisti, C. lasciò la casa per unirsi alla brigata e prendere parte ai combattimenti successivi all’annuncio dell’insurrezione generale. Egli stesso aveva lasciato un messaggio per comunicare alla famiglia la sua dipartita, in quello che oggi viene considerato una sorta di testamento spirituale: «Parto a rivendicare i nostri diritti. Cacciare il tedesco con entusiasmo. Il Signore mi aiuti e mi guidi. Viva la democrazia. Parto con ardore – con fede. Lieto se farò il mio dovere. Ormai sono in pace con Dio e con gli uomini… Viva il Partito Demo-Cristiano. Viva il Papa». C. si diresse, insieme ad alcuni compagni partigiani, verso Legnaro per chiedere la resa dei reparti della Wehrmacht che ancora presidiavano il paese. Raggiunto il posto, cominciarono delle trattative serrate con gli ufficiali tedeschi che, però, si rivelarono del tutto infruttuose e che portarono a una violenta reazione del manipolo di militi nazisti. Bloccato ogni tentativo di mediazione, C. e due suoi compagni vennero posti in stato di arresto, interrogati e percossi per indurli a rivelare le posizioni di altre bande partigiane che tentavano di ostacolare la ritirata tedesca e, infine, tenuti a disposizione come ostaggi. Trincerati dietro un ostinato silenzio, i tre furono condotti nella piazza principale di Legnaro e preparati per essere fucilati sul posto. Solo l’immediato intervento del parroco presso le autorità tedesche riuscì ad impedire momentaneamente l’esecuzione.
Nella notte tra il 28 e il 29 aprile il presidio tedesco, sotto la pressione dell’avanguardia dell’VIII armata inglese, si diresse verso nord, portando con sé i prigionieri. Arrivati a Stra, davanti alla Villa Pisani, C. venne ucciso e il suo corpo venne gettato nel fiume Brenta. Solo grazie all’opera del parroco di Stra fu possibile recuperare a riva il corpo e comunicare la notizia ai familiari.