Giorgio Catti nacque a Torino il 28 ottobre del 1925 da Giovanni, grande invalido della Prima guerra mondiale, e Gemma Novena, e visse in un ambiente familiare che fu sempre caratterizzato dalle modeste condizioni economiche. Fin da giovanissimo, indirizzato dall’educazione ricevuta dai genitori, volle prendere parte al circolo della Giac attivo nella parrocchia del santuario della Consolata del capoluogo piemontese e decise di collaborare con la locale Conferenza di San Vincenzo e all’Opera catechistica diocesana. Dopo gli studi giovanili si iscrisse all’istituto superiore Quintino Sella e, ottenuto il diploma di ragioniere, venne ammesso alla facoltà di Economia del Politecnico di Torino.
Fu proprio durante il periodo universitario che C. venne raggiunto dalla notizia della caduta del regime fascista e, successivamente, da quella dell’armistizio di Cassibile che poneva ufficialmente fine alle ostilità con gli alleati ma lasciava drammaticamente aperto il nodo circa i rapporti da mantenere con l’ex alleato germanico. Constatata ben presto la durezza dell’occupazione tedesca, il giovane decise già nei mesi successivi all’8 settembre di prendere contatti con i responsabili del movimento resistenziale che si andava organizzando in Piemonte e cominciò una prudente opera di propaganda per convincere i suoi compagni universitari a non abbracciare la causa della Repubblica sociale. Con il moltiplicarsi dei bandi per l’arruolamento emessi dal nuovo governo di Salò, lo stesso C. decise di raggiungere le formazioni clandestine attive nella zona di Cumiana, vicino Torino, e di attivarsi per coordinare un gruppo di soldati sbandati che aveva lasciato il proprio reparto per non cadere in mano del nemico.
Dopo essersi unito in un primo tempo alla brigata autonoma Val Chisone, comandata dal sergente degli alpini Maggiorino Marcellin «Bluter» e in cui operava anche il fratello Pietro, si spostò nella zona del Vallone del Grandubbione dove, assunto il nome di battaglia di «Bossi», insieme all’amico Gianni Daghero detto «Lupo» ebbe modo di costituire una banda di guastatori che, secondo alcune testimonianze, vide le sue fila infoltite in larga parte da giovani provenienti dall’Azione cattolica.
Il 30 dicembre del 1944 il gruppo di partigiani venne raggiunto da un reparto fascista del battaglione Nembo della Folgore in opera di rastrellamento nella zona. C., insieme a Michele Levrino e al comandante Daghero, si nascose nel fienile di una cascina in località Porte di Cumiana. Quando i tre vennero individuati, rifiutarono a più riprese di arrendersi al nemico e decisero di asserragliarsi nella struttura per tentare un’ultima, seppur effimera, resistenza. Non riuscendo a convincerli a capitolare, al fine di costringerli ad uscire i militi fascisti decisero di dare tutto alle fiamme. Costretti dunque ad abbandonare il rifugio, i tre partigiani vennero immediatamente individuati e abbattuti con delle scariche di mitra. A poca distanza dal suo corpo i contadini che raggiunsero il luogo dell’eccidio trovarono una piccola cartolina raffigurante Piergiorgio Frassati che recava sul retro la scritta: «La miglior vendetta è il perdono». Nel dopoguerra alla memoria di C., da più parti ricordato come il «partigiano santo», venne concessa la medaglia di bronzo al valor militare.