Luigi Doriguzzi nacque a Feltre, in provincia di Belluno, il 6 novembre del 1915. Dopo aver frequentato gli studi elementari e medi presso la città natale, nel 1929 si iscrisse all’Istituto commerciale Pier Fortunato Calvi di Padova. Cinque anni più tardi, terminato il percorso scolastico e ottenuto il diploma da ragioniere, tornò a Feltre dove trovò impiego prima presso il negozio di vendita di generi alimentari del padre e poi nella gestione dell’albergo di proprietà della famiglia. Nel 1926, allora undicenne, entrò a far parte in qualità di aspirante del circolo della Giac attivo a Feltre, sotto la guida carismatica di don Giulio Gaio, per poi passare tra gli effettivi e arrivando ad assumere la carica di delegato Aspiranti e, quindi, quella di presidente diocesano della Gioventù cattolica. Negli anni trascorsi a Padova, invece, fece parte del Movimento studenti di Azione cattolica e della locale Conferenza di San Vincenzo.
Nel 1942 venne richiamato sotto le armi per assolvere gli obblighi di leva. Dopo un breve periodo di formazione militare, venne assegnato al Comitato deposito del 5° reggimento d’Artiglieria alpina di stanza a Belluno. Nell’estate del 1943, dopo essere stato mobilitato per partire con il battaglione «Val Piave» per la Russia, venne trattenuto a Feltre perché fu accettata la sua richiesta di frequentare il Corso ufficiali. Le notizie della caduta del regime fascista e, successivamente, della ratifica dell’armistizio di Cassibile lo colsero presso la caserma di Belluno, dove era da poco stato nominato caporale maggiore. A causa del momento di grande confusione e della drammatica mancanza di direttive da parte del comando militare, egli vide gran parte del suo battaglione sbandarsi e anche lui, per non essere costretto ad arrendersi ai tedeschi e a servire tra le fila della Wehrmacht, decise di lasciare il proprio posto e di far ritorno a Feltre.
Alla firma dell’armistizio di Cassibile i tedeschi si mossero immediatamente per occupare le zone strategiche dell’Italia e, ben presto, il Reich riuscì ad assicurarsi il controllo diretto su un’ampia porzione di territorio – la cosiddetta Zona d’operazione delle Prealpi, comprendente le province di Trento, Bolzano e Belluno – che venne sottoposta all’amministrazione militare tedesca. Fu in questo contesto che D. diede avvio al suo impegno nella Resistenza. Già nelle prime settimane successive all’armistizio, infatti, in qualità di presidente diocesano della Giac aveva messo a disposizione «l’organizzazione periferica» dell’associazione per permettere al Comitato civico clandestino di Feltre, formato da un gruppo di cittadini allo scopo di dare supporto materiale ai militari sbandati e ai giovani renitenti alla leva repubblichina, di poter operare «in tutte le parrocchie del Feltrino».
Ben presto egli fece corrispondere a questa multiforme attività caritativa e assistenziale, una di carattere più prettamente organizzativa e militare. Postosi a fianco di Angelo Zancanaro, ex comandante del 9° reggimento alpini che era in contatto diretto col Cln veneto, nell’ottobre del 1943 D. fu tra i partecipanti alle prime riunioni indette nel seminario di Feltre in cui i responsabili delle bande partigiane decisero in che modo dividersi le zone di operazione. Della prima fase del suo impegno nella Resistenza egli ricordò: «Con Zancanaro venne stilato un regolamento molto preciso: selezionare bene gli uomini, individuare i luoghi di raccolta di armi e viveri in montagna, dare all’organizzazione il più assoluto senso della disciplina e del lavoro in clandestinità, cercando, per quanto possibile, di continuare le proprie occupazioni. Il progetto quindi prevedeva una “resistenza passiva”, senza colpi di mano, nell’attesa del “momento buono”, allorché le truppe tedesche in ritirata avrebbero attraversato le nostre valli. Questo progetto era però in contrasto con quello delle organizzazioni che volevano la “resistenza attiva” del colpire immediato, che metteva in allarme i tedeschi e a repentaglio le popolazioni».
I suoi primi compiti furono dunque rivolti al mantenimento di un rapporto diretto con gli alleati, attraverso l’ascolto clandestino di Radio Londra e i contatti giornalieri con la ricetrasmittente posizionata a Padova, per l’organizzazione degli aviolanci di armi e munizioni a favore delle brigate partigiane. Individuato dagli apparati di controllo nazifascisti, il giovane venne raggiunto da un provvedimento di fermo il 2 maggio del 1944 e, successivamente, fu trasferito al Comando delle Ss di Belluno. Raggiunto il luogo di detenzione, egli fu sottoposto a pesanti interrogatori e a numerose sevizie, allo scopo di indurlo a rivelare notizie utili all’individuazione dei responsabili del movimento resistenziale. Dopo qualche giorno, però, i tedeschi furono costretti a rilasciarlo perché il suo silenzio non aveva permesso di segnalare prove sufficienti a suo carico. Tornato a casa, non trascorse molto tempo con la famiglia visto che già il 14 maggio venne nuovamente ricondotto a Belluno per subire un nuovo interrogatorio. La sera stessa venne poi spostato alle carceri giudiziarie di Baldenich dove fu isolato allo scopo di non permettergli alcun contatto con l’esterno.
La sera del 16 giugno fu liberato, insieme ad altri settanta prigionieri politici, da un gruppo di dodici partigiani della divisione Nino Nannetti travestiti da militi nazisti nell’operazione che venne definita come la «beffa di Baldenich». Fatto di nuovo ritorno a Feltre, ebbe l’incarico da parte del Cln della città di raggiungere la brigata Garibaldi «Antonio Gramsci» attiva a Pietena, località a nord di Feltre, guidata dal capitano Paride Brunetti «Bruno» e di inserirsi nel comando della stessa con il nome di battaglia di «Momi». Di questo periodo di responsabilità, che durò fino al grande rastrellamento del settembre 1944, egli ricordò: «Ricoprii varie cariche fino a vicecommissario di Brigata. Non fui mai armato, non partecipai mai ad operazioni. Altri amici cattolici erano presenti e furono adibiti ad incarichi vari, perché ritenuti fidati. La nostra presenza fu soprattutto un’opera di carità e di consiglio per evitare azioni esagerate o eccessivamente ardite, tali da compromettere le popolazioni».
Successivamente alle operazioni di rastrellamento dei nazifascisti, temendo gravi rappresaglie contro la sua famiglia, D. decise di far perdere le proprie tracce e rifugiarsi a Milano. Nel capoluogo lombardo, agli inizi del 1945, ebbe modo di entrare a far parte della Presidenza della Giac per l’Alta Italia, allora guidata da Carlo Carretto, che si riuniva periodicamente presso il collegio San Carlo. Nell’immediato dopoguerra fece rientro a Feltre e, in rappresentanza della Dc, entrò nella prima amministrazione del Comune guidata dal Cln e, l’anno successivo, fu designato nella carica di vicesindaco a seguito della vittoria elettorale del partito. In questo periodo fu anche nominato commissario dell’Ente comunale di Assistenza. Negli anni che seguirono fu tra i fondatori del Comitato civico cittadino, delle Acli e diede un fattivo sostegno all’attività del Csi.
Al suo impegno in ambito civico e sociale fece corrispondere quello professionale visto che, dal 1946, fu assunto come cassiere presso la Banca Cattolica del Veneto, dove rimase fino all’età della pensione.