Giuseppe Lerda nacque a Boves, in provincia di Cuneo, l’8 luglio del 1924. Cresciuto in un ambiente familiare imperniato su una profonda religiosità, fin da giovanissimo fece parte del circolo Giac San Tommaso d’Aquino del paese natale. Dopo aver atteso agli studi liceali, decise di iscriversi alla facoltà di Medicina e chirurgia dell’Università degli studi di Torino.
Nel corso dell’estate del 1943, dopo pochi mesi di vita universitaria, L. si vide costretto a interrompere gli studi perché richiamato sotto le armi per assolvere gli obblighi di leva. Fu proprio durante il breve periodo di formazione militare che il giovane assistette alla caduta del fascismo e, successivamente, alla ratifica dell’armistizio di Cassibile che poneva definitivamente fine alle ostilità con le forze angloamericane già presenti nel territorio della penisola. Lasciato il suo reparto, decise di non far ritorno a casa per non mettere in pericolo i familiari e di raggiungere la località di San Giacomo di Boves per aggregarsi ai primi nuclei di militari che, dopo essersi sbandati, si erano riuniti sotto la guida di alcuni ufficiali – tra i quali vi fu anche Ignazio Vian, socio della Fuci di Roma e futura medaglia d’oro al valor militare – che tentavano di organizzare una valida presenza in Valle Stura per opporsi alla dura occupazione tedesca.
Assunto il nome di battaglia di «Beppe», che in verità ricalcava il soprannome avuto fin da ragazzo, si distinse a più riprese in operazioni di sabotaggio delle linee di comunicazione, di recupero di armi e munizioni dalle locali caserme fasciste e in azioni di guerriglia contro il nemico. In questo contesto, L. si trovò nel gruppo di partigiani che, il 19 settembre, dovette assistere inerme agli eventi del tristemente noto «eccidio di Boves» che, nell’arco di una tragica giornata, portò all’uccisione di ventitré civili e all’abbattimento di più di trecento case a causa di un incendio fatto divampare dai nazisti. La violenta azione criminale fu perpetrata da un reparto della 1ª divisione corrazzata Leibstandarte-SS Adolf Hitler agli ordini dello SS-Sturmbannführer Joachim Peiper in rappresaglia contro i civili rei, secondo loro, di aver dato sostegno ai ribelli sulle montagne e per monito alla banda partigiana di Vian che, durante uno scontro a fuoco sostenuto con una pattuglia tedesca, aveva catturato due SS e ucciso un milite.
Non cedendo alla tragica dimostrazione tedesca, il gruppo partigiano venne riorganizzato e ricominciò la propria attività nel territorio montuoso intorno a Boves. Viste le capacità dimostrate in battaglia, L. venne a più riprese lodato dai comandi e gli fu affidata la guida di un distaccamento della formazione. Il suo nome, inoltre, cominciò a essere noto anche al nemico, tanto che, allo scopo di indurlo a terminare la sua attività e presentarsi per essere interrogato e processato, la sua abitazione venne fatta oggetto di diversi saccheggi da parte di pattuglie della Rsi e, infine, rasa al suolo definitivamente. Allo stesso tempo, per favorire la delazione contro di lui, sul suo capo venne posta una taglia di centomila lire.
Nonostante le pressioni, L. continuò a operare in Valle Stura fino a quando, in seguito a una violenta offensiva di reparti tedeschi in operazione di rastrellamento, i gruppi della Resistenza di Boves furono costretti a sciogliersi e a riparare in Valle Ellero per non essere individuati. Nella nuova zona il giovane rimase fino a quando, nel marzo del 1944, dopo aver sostenuto violenti combattimenti contro le forze nazifasciste, la banda fu di nuovo costretta a sciogliere le fila per non essere facile preda del nemico e per non cadere nelle mani dei nazifascisti. Nell’impossibilità di continuare la sua attività, L. decise di tornare nuovamente in Valle Stura per prendere contatti con le formazioni di Giustizia e libertà che operavano in quel territorio. Una volta giunto sul posto, infatti, venne inquadrato nella brigata Bisalta della I divisione alpina Gl. Dopo poco tempo, peraltro, gli venne nuovamente affidato il comando di un distaccamento.
Nel corso della metà di aprile, le forze nazifasciste operarono una vastissima operazione contro le bande partigiane della zona delle valli Gesso, Stura e Grana, chiudendo così un ciclo di rastrellamenti condotti su tutto l’arco delle Alpi cuneesi per colpire le diverse formazioni di Giustizia e libertà. Il 27 aprile successivo, probabilmente a seguito di delazione, il gruppo di L. venne individuato e raggiunto da un reparto tedesco in località Castelmagno di Valgrana. Intimatogli di ordinare ai suoi uomini di deporre le armi e arrendersi senza opporre resistenza, il giovane rifiutò sdegnosamente e decise di ingaggiare uno scontro a fuoco per tentare un’estrema opposizione al nemico. Dopo aver avuto un caduto nel combattimento e vista l’ormai imminente fine delle munizioni, il gruppo partigiano dovette rassegnarsi alla cattura.
Tradotti i prigionieri alle caserme di Borgo San Dalmazzo, L. fu subito riconosciuto come uno dei responsabili del movimento resistenziale attivo nella zona e, dopo essersi rifiutato di rivelare i nominativi dei suoi compagni, di dare informazioni sulla posizione delle bande partigiane e, infine, anche di accettare l’offerta di arruolamento nella Wehrmacht per aver salva la vita, fu condannato a morte senza regolare processo. Posto immediatamente innanzi al plotone di fucilazione, come ebbe a raccontare nel dopoguerra don Raimondo Viale, allora parroco di Borgo San Dalmazzo e riconosciuto «Giusto fra le nazioni» il 7 agosto del 2000 da Yad Vashem per la sua opera a favore degli ebrei nel periodo della Resistenza, «Beppe» chiese di poter avere i conforti religiosi e rifiutò di essere legato al palo. Prima di essere raggiunto dalla scarica di mitraglia che lo lasciò esanime a terra, gridò «Viva l’Italia libera!». In onore del suo sacrificio, una formazione partigiana costituitasi nel Cuneese prese il suo nome.