Luigi Pierobon nacque a Cittadella, in provincia di Padova, il 12 aprile 1922 da Giuseppe Pierobon e Maria Simioni. La sua famiglia, di modeste condizioni economiche, fu molto numerosa: fu il primo di otto figli. Trascorse gli anni giovanili nel suo paese natale, spostandosi poi a Padova per attendere agli studi superiori. Terminato il ginnasio al collegio salesiano «Manfredini» di Este, si iscrisse al liceo classico «Tito Livio» di Padova. Nel corso del periodo trascorso in questa città, ebbe anche modo di iscriversi e partecipare alle attività dell’associazione giovanile di Ac «S. Sofia». Ottenuto il diploma, decise di iscriversi alla facoltà di Lettere e filosofia dell’Università di Padova, entrando nel locale gruppo Fuci.
Nel febbraio del 1943, mentre si trovava al quarto anno del corso in lettere antiche e si apprestava a terminare la sua tesi con uno studio su Tito Livio, dovette rispondere alla chiamata di leva. Sospesi temporaneamente gli studi, venne assegnato con la sua classe ad un corso per allievi ufficiali presso il V Battaglione di istruzione e, nell’aprile dello stesso anno, ne uscì con il grado di caporale. Particolarmente segnato dalla forzata pausa che dovette subire il suo percorso accademico, si vide destinato prima a Gradisca d’Isonzo, in provincia di Gorizia, e, successivamente, a Navacchio, in provincia di Pisa. Sulla vita passata in caserma, maturò un duro giudizio, soprattutto per quanto concerneva la cura delle pratiche devozionali a cui era abituato. Come lui stesso affermò in una delle tante lettere inviate allo zio: «domenica ho assistito alla prima Messa al campo, ma l’impressione che ne ho riportata è stata tutt’altro che buona». La difficoltà nel potersi dedicare, come da abitudine, alle meditazioni e alla preghiera lo portarono a provare verso le «care Messe fucine» e al periodo trascorso proprio nella Fuci di Padova «una grande nostalgia».
Il 5 aprile 1943 P., insieme ai suoi compagni, superò brillantemente il corso allievi ufficiali e giurò fedeltà al re. Lui stesso, in una lettera indirizzata ai genitori, ebbe modo di annunciarlo ai parenti, confermando come a una sua iniziale perplessità sul valore della cerimonia del giuramento che, a suo parere, l’avrebbe dovuto lasciare indifferente, dovette prendere posto la constatazione che «non fu così, anzi tutt’altro. E la maggior parte ci siamo commossi. Fu un solo istante, ma credo che lo ricorderò per sempre».
Dopo pochi mesi, la situazione dell’Italia nel teatro della II Guerra mondiale si fece più complicata. Alle notizie delle sconfitte subite dalle forze armate nei diversi teatri di guerra seguì, il 25 luglio del 1943 la caduta del regime fascista e, un mese più tardi, P. si trovò ad assistere al duro bombardamento della città di Pisa da parte dell’aeronautica statunitense.
Alla data della firma dell’armistizio di Cassibile, P. era assegnato al deposito del 73° Reggimento fanteria. I soldati, senza direttive precise e ordini dal comando, si sbandarono e, per evitare di essere catturati dai tedeschi e internati in Germania, lasciarono la loro occupazione. Lo stesso P. decise di rientrare a casa, dove intendeva riprendere gli studi che aveva dovuto sospendere qualche mese prima. Fece dunque ritorno all’Università di Padova per terminare il percorso accademico. In quei giorni, discusse con la professoressa Paola Zancan per vedersi assegnato un argomento per la sua tesi di laurea in antichità romane.
Col susseguirsi degli eventi, P., come tanti altri giovani della sua zona, si trovò nella condizione di dover scegliere se rispondere ai diversi bandi di reclutamento della Rsi o raggiungere le prime formazioni della Resistenza che andavano formandosi nel vicentino. Alla fine del febbraio 1944, decise di salire sui monti sopra Recoaro e aggregarsi a una banda di partigiani, assumendo il nome di battaglia di «Dante». Nel corso di questi mesi, si trovò dunque nel primo gruppo che successivamente, organizzatosi sotto il comando di «Pino», guidò il movimento resistenziale nella zona. La sua attività fu ben presto apprezzata dai componenti della banda tanto che nel corso del marzo del 1944, avendo necessità di sostituire momentaneamente la guida della formazione, venne scelto come comandante dai suoi compagni.
Nell’aprile dello stesso anno, serrate le fila della banda e assegnate le zone di pertinenza di ciascuna formazione, si decise di dar vita al battaglione «Stefano Stella», appartenente alla brigata Garibaldi «Ateo Garemi», assegnandolo alla guida di P. Di questa nuova responsabilità scrisse allo zio, il 12 maggio 1944, lodando il Partito comunista in merito al suo operato in seno alla Resistenza e sottolineando la sua «prevalenza nel nostro movimento. Perfettamente ligio al Comitato di Liberaz. Naz. assegna posti di responsabilità a tutti, purché di buona volontà (a me, per es. è stata affidata la responsabilità militare del battaglione Stefano Stella». Ciononostante, egli sottolineò allo stesso tempo «l’impressione, e molte volte, la certezza, che il lavoro anti-tedesco che adesso esplica questo partito abbia un secondo fine: avere subito, a fine guerra, delle forze in mano e non delle sole armi, per una rivoluzione vera e propria». A riprova del ruolo di guida della sua formazione, sottolineò anche che la «tentazione di lasciare la montagna» deve forzatamente scontrarsi con il sentimento verso i suoi uomini: «il battagl. si sfascerebbe se me ne andassi: per questo sono rimasto».
Diverse furono le operazioni guidate da P. Alle iniziali azioni per impossessarsi di armi e munizioni, per colmare l’endemica mancanza delle formazioni partigiane, fecero seguito i primi colpi sferrati all’organizzazione militare tedesca della zona. Dopo essere entrato in possesso dei piani nemici per la fortificazione dal Garda al Brenta, grazie alla cattura di due ufficiali tedeschi caduti in un’imboscata da lui organizzata, si mosse per anticipare le mosse dei nazifascisti, anche al fine di evitare inutili rappresaglie nei confronti delle popolazioni.
La sua azione si complicò quando, nell’estate del 1944, proprio a Recoaro venne posta la sede del comando tedesco del Nord Italia. La formazione guidata da P. si trovò dunque nella scomoda situazione di dover operare nella zona con maggiore prudenza e nell’impossibilità di muoversi come avrebbe desiderato. Proprio a causa di questa sempre più complessa coesistenza, durante un rastrellamento condotto da truppe della Rsi nella zona dell’Agno vennero catturati in un fienile sette partigiani. Il comandante «Pino» e P. stesso, che si trovavano insieme a loro, riuscirono a fuggire solo perché si accorsero prontamente del pericolo. Non volendosi rassegnare alla perdita dei suoi compagni, P. decise di organizzare e coordinare una complessa operazione di salvataggio dei prigionieri, che erano nel frattempo stati condannati a morte. Nel corso del tragitto tra il luogo di detenzione e quello deputato per l’esecuzione della sentenza, gli uomini della formazione di P. assaltarono il camion con a bordo i prigionieri e li liberarono.
La figura di P. fu comunque collegata all’ardita operazione del 23 luglio 1944 contro il comando della Marina repubblicana da qualche mese stanziato nel territorio di Montecchio Maggiore. «Dante», alla guida di 40 dei suoi uomini, riuscì a violare il perimetro della cittadella fortificata e far incetta di armi e munizioni utili per continuare la guerriglia sui monti.
Il 15 agosto del 1944, a seguito di queste azioni condotte dalla sua formazione, fu chiamato in città per incontrare i rappresentanti del comando regionale e per incontrare nuovi giovani da inserire nelle fila della sua banda. Raggiunto il luogo convenuto, non riuscì nel suo intento e fu invece raggiunto da un drappello di miliziani della Rsi, probabilmente avvertiti da un delatore. Venne dunque catturato, posto in stato di arresto e condotto alla Casa di pena, dove lo sottoposero a diversi interrogatori per indurlo a rivelare notizie utili all’individuazione della cellula di resistenti presenti sui monti sopra Recoaro. A nulla valsero le diverse torture a cui venne sottoposto: P. si dimostrò deciso a non fornire alcuna indicazione utile ai suoi aguzzini.
Il 17 agosto 1944, a seguito della morte per mano partigiana del colonnello della Rsi Bartolomeo Fronteddu, comandante del battaglione volontari di Sardegna, venne emanato l’ordine di rappresaglia con l’indicazione di condannare a morte dieci prigionieri. Il nome di P. comparve nella lista e, per le ultime ore di vita, chiese l’assistenza spirituale di un sacerdote. Al parroco che giunse sul posto domandò il necessario per poter comporre un’ultima lettera da indirizzare alla famiglia. Oltre a salutare tutti i suoi cari, descrisse i suoi ultimi momenti di prigionia: «Ho appena fatta la SS. Comunione. Muoio tranquillo. Il signore mi accolga fra i suoi in cielo. È l’unico augurio e più bello che mi faccio. Pregate per me».
Nella giornata del 17 agosto venne dunque condotto davanti al plotone di esecuzione nella caserma di Chiesanuova e all’ultimo tentativo di offrirgli salva la vita in cambio della sua collaborazione rispose sdegnosamente: «Siete servi venduti. Noi moriamo per l’Italia» e richiese a gran voce di essere fucilato al petto.
Alla memoria del sacrificio di P. venne decretata la medaglia d’oro al valor militare con la qualifica di caporale allievo ufficiale di fanteria e partigiano combattente con la seguente motivazione: «Organizzatore dei primi nuclei partigiani del Vicentino, valoroso combattente, deciso in ogni azione di guerra, mentre era in Padova per organizzare con altri capi un’azione militare da effettuare in quei giorni, cadde in una vile imboscata tesa a suo danno. Arrestato e riconosciuto quale comandante di Brigata, fu sottoposto a barbare sevizie, che sopportò con eroico stoicismo pur di non tradire la causa alla quale tutto dava. Al nemico, che tentava di lusingarlo con promessa di liberazione, dichiarò sdegnosamente di non essere un traditore e che preferiva morire da soldato. Di fronte al plotone di esecuzione restò sereno ed impavido e cadde gridando: “Noi moriamo per la Patria”. Padova, 17 agosto 1944».