Simone Natalino Simoni nacque a Patrica, in provincia di Frosinone, il 24 dicembre 1880 da Antonio e Rosa Simoni, secondo di cinque figli.
Trascorse gli anni giovanili nel paese natale fino a quando, per attendere agli studi superiori, dovette recarsi presso il collegio dei domenicani a Cortona, in provincia di Arezzo. Al compimento del diciassettesimo anno di età, il 31 dicembre 1897 decise di arruolarsi in qualità di volontario nel Regio esercito e venne assegnato al 52° Reggimento di fanteria. Rapida fu fin da subito la carriera militare di S. Nel 1898 si vide infatti promosso caporale mentre, l’anno successivo, venne nominato sergente e assegnato al 60° Reggimento fanteria. Dimostrando le proprie qualità sotto le armi, il 31 maggio 1902, fu scelto in qualità di furiere presso la scuola militare e ancora, il 1° gennaio 1903, assunse il grado di sottotenente del 21° Reggimento di fanteria. Concluse questi anni con l’ultima promozione a tenente, il 19 settembre 1907, e con il conseguente trasferimento al 52° Reggimento di fanteria.
Nel 1908 ricevette la triste notizia della morte della fidanzata, Adalgisa Biscossi, vittima del grave terremoto che colpì la città di Messina il 28 dicembre.
Quando l’Italia, nel biennio 1911-1912, decise di intraprendere la campagna di Libia con l’intento di conquistare i territori della Cirenaica e della Tripolitania, S. venne richiamato per prendere parte al corpo di spedizione che sarebbe stato inviato in Nordafrica agli ordini del generale Carlo Caneva. L’8 novembre del 1911 partì per raggiungere la Cirenaica con il grado di tenente del 52° Reggimento di fanteria della brigata «Alpi», dove si adoperò contro la guerriglia turca fino all’ottobre del 1915. Nel corso delle operazioni a cui prese parte e dei combattimenti che dovette sostenere ottenne un encomio e una medaglia di bronzo al valor militare. Per il merito guadagnato in battaglia, il 9 aprile 1914 S. venne nominato cavaliere del re e il 3 giugno dello stesso anno fu promosso capitano dell’85° Reggimento di fanteria. Vista le benemerenze acquisite sul campo godette anche dello status privilegiato di residente politico a Cirene, assegnatogli il 1° gennaio 1915.
Ritornò in Italia e il 2 settembre del 1915 ebbe modo di sposare nella chiesa di Sant’Agostino in Patrica Mercedes Biscossi, sorella di Adalgisa, da cui ebbe quattro figli.
Quando l’Italia decise di prender parte alla I Guerra mondiale, S. fece domanda per tornare sotto le armi e nell’ottobre del 1915 gli venne affidato il comando di un battaglione del 73° Reggimento di fanteria. Nel corso dei combattimenti venne quindi trasferito al 228° Reggimento di stanza nel Carso e il 26 luglio 1917, in seguito a diverse azioni di cui si rese protagonista, venne promosso maggiore. Nell’ottobre del 1917 si trovò a condividere con i suoi commilitoni la tragica battaglia di Caporetto, con il compito di tenere, con il battaglione al suo comando, un caposaldo di strategica importanza sul monte Joannes, nella valle del Natisone. Nelle giornate del 26 e 27 ottobre tentò dunque di approntare una strenua resistenza che ben presto si rivelò effimera davanti alle soverchianti forze nemiche, fino a quando il suo reparto non venne travolto dall’offensiva e lui stesso catturato.
Avendo subito, nel corso della battaglia, dei gravi danni ai polmoni causati dai gas tossici inalati, venne condotto come prigioniero all’ospedale militare di Ellwangen, in Germania, dove fu assistito per diverso tempo, rimanendo in cura per circa tre mesi. Fu in questo periodo e in queste precarie condizioni fisiche che ebbe modo di conoscere mons. Eugenio Pacelli, in quel periodo nunzio apostolico in Baviera, che era solito visitare la struttura per dar conforto ai militari italiani che vi erano stati condotti dopo la disfatta di Caporetto. Al termine del suo periodo di convalescenza, S. fu condotto in un campo di prigionia dove rimase internato per circa un anno.
Alla firma dell’armistizio tra le forze in campo e la fine del primo conflitto mondiale, S. ebbe modo di far ritorno in Italia, raggiungendo il paese natale nel corso del dicembre del 1918. Viste le ferite e i danni ai polmoni subiti durante i combattimenti sostenuti nel corso della guerra, nell’aprile del 1919 venne riconosciuto grande invalido di guerra e insignito nuovamente di una croce di guerra.
Nel corso del primo dopoguerra ben presto si avvicinò al neonato movimento fascista e, il 2 marzo 1921, decise di prendere la tessera del Pnf. L’anno successivo, posto a riposo dai comandi del Regio esercito, entrò nelle fila della Milizia volontaria per la sicurezza nazionale, assumendo il grado di console. Il 2 dicembre 1922 si pose alla guida di una squadra fascista e organizzò una spedizione nel paese di Supino, in provincia di Frosinone, per rendere omaggio al monumento ai caduti della Grande guerra. Nel 1923 venne promosso tenente colonnello e decorato di una medaglia d’argento e una di bronzo al valor militare per meriti acquisiti nel corso delle operazioni della I Guerra mondiale. Il 1° gennaio 1924 tornò in servizio e si vide assegnato al distretto militare di Gaeta.
Il 12 febbraio 1929 S. partì per la Cirenaica ed entrò a far parte del Regio corpo delle truppe coloniali, impegnandosi fin da subito nelle operazioni contro la guerriglia locale. Resosi protagonista di una valente offensiva contro un gruppo di sabotatori operanti a Gol Ghernada, tornato in patria venne insignito di una croce di guerra, nel 1930, e di una medaglia d’argento al valor militare, nel 1931.
Posto nel ruolo della riserva, ben presto trovò lavoro presso una società commerciale di Roma, di cui fu nominato presidente. In questo periodo prese parte alle attività del gruppo Laureati di Ac della capitale.
Nel gennaio del 1934, facendo seguito a un articolo uscito sul giornale «Il Popolo d’Italia» che faceva menzione delle sue imprese militari, S. scrisse direttamente a Mussolini per evidenziare il proprio ardimento e sottolineando, oltre ai suoi meriti e decorazioni, anche il suo lealismo verso la causa fascista fin dai primi anni: «trincerista dieci volte decorato al v.m. grande mutilato di guerra – al Duce degl’Italiani – già incontrato per le trincee e i camminamenti insanguinati nell’ora del sacrificio, e seguito per le vie e le piazze d’Italia nella fervida vigilia della redenzione nazionale» e terminava la missiva con l’esortazione al duce di destinarlo senza indugio a «un settore di prima linea del Vostro fronte di battaglia, quale che sia. T. Col. Simone Simoni, tessera fascista 2 marzo 1921».
Seppur nota la sua fedeltà al regime, era anche riconosciuta la sua posizione di forte critica verso alcune figure di gerarchi vicini a Mussolini. S. venne dunque posto dal 1934 sotto stretta sorveglianza dalla polizia politica del regime, che ebbe però modo più volte di sottolineare la sua ammirazione e lealtà verso il duce. Il 20 febbraio del 1934 di lui venne riferito «che l’ecc. Maggiore Simone Simoni è stato riammesso in questi ultimi tempi nella Mvsn col grado di Console. Il Simoni fu nominato Console la prima volta dall’on Viola, allora Comandante il Raggruppamento a Roma. Quando il Viola lasciò la Milizia e il Partito, il Simoni lo seguì ed anche lui fece politica contraria alle direttive del Regime. Seguì il Viola per molti anni nelle sue idee politiche. Ha per molti anni criticato l’opera del Regime. Nell’ambiente romano è stato sempre ritenuto pessimo Fascista. Fu iscritto al Partito dopo la Marcia su Roma».
Pur più volte segnalato, la sua carriera militare non ebbe ripercussioni vista la stima che egli continuamente ribadiva verso il fascismo. Alla proclamazione dell’impero affermò che «la maggior vittoria è del Duce, è del Fascismo». Tra i meriti annoverati al regime, secondo lui, andava ascritta anche quell’«atmosfera di tanto entusiasmo, una gente nuova tale, da potersi dire l’Italia del 1936 è tutta una diversa Italia da quella del 1919». Si vide dunque promosso al grado di colonnello nel 1935 e, successivamente, nominato generale di brigata per meriti eccezionali il 15 ottobre 1936. Il 2 dicembre del 1936, per curare alcuni affari di natura economica relativi alla società che era stato chiamato a presiedere, si trasferì in Eritrea e vi rimase per circa un anno, facendo infatti ritorno in patria a fine gennaio 1938. L’anno successivo, con decreto del 6 luglio del 1939, fu promosso generale di divisione nel Regio esercito per «specialissimi meriti» e inserito nel ruolo d’onore.
Allo scoppio della II Guerra mondiale si dichiarò, conscio delle debolezze dell’esercito e dell’impossibilità di ben figurare delle forze armate italiane in un conflitto su larga scala, fermamente contrario all’entrata nel conflitto a fianco dell’alleato tedesco. Il suo dissenso diventò totale nel periodo successivo alla morte del figlio Gastone, capitano della Folgore, insignito di medaglia d’oro al valor militare, avvenuta il 27 ottobre 1942 durante la battaglia nei pressi di El Alamein. A conferma di questo vi fu una dichiarazione rilasciata il 29 marzo 1943 dall’informatore Carlo Del Re, conservata nel fascicolo dedicato al generale S. tra le carte della polizia politica del regime, in cui riferì: «Il Generale in posizione ausiliaria, Simoni Simone, Roma, via G. Ferrari 2, telef. 33018, esplica, quotidianamente con chiunque si trovi a parlare, una feroce propaganda contro il Duce ed il Regime. Dice, tra l’altro, che il Duce ha l’utero nel cervello, che non connette più, che ha rovinato l’Italia e così di seguito. I discorsi del Simoni destano molta impressione appunto perché si tratta di un Generale, per giunta Superdecorato. Devesi aggiungere che egli ha perduto da poco il figlio sul fronte libico, ma, naturalmente, il suo dolore non può giustificare il suo consuetudinario comportamento».
Si trovò nella capitale quando venne raggiunto dalla notizia della caduta del regime fascista e da quella della firma dell’armistizio dell’8 settembre 1943. S. decise di raggiungere immediatamente il Ministero della Guerra per mettere a disposizione del neonato governo la propria esperienza di generale dell’esercito. Fu infatti tra i pochi che sostennero l’esigenza di approntare un’efficace e rapida difesa militare della città di Roma. Dovendo constatare ben presto l’impossibilità di evitare l’occupazione nazista, si avvicinò al Fronte militare clandestino guidato da Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo.
La sua opera fu costante. Sfruttando la sua posizione cercò di assicurare una fitta rete di collegamento tra le varie organizzazioni che si andavano formando in seno alla Resistenza capitolina. A questo scopo mise più volte a disposizione di eminenti antifascisti locali la sua abitazione e la sede della compagnia che dirigeva, come luoghi sicuri in cui incontrarsi per le riunioni di coordinamento. Tra le altre opere, S. si spese profondamente anche per dare supporto ai renitenti ai bandi di leva della Rsi e per dare soccorso ai militari sbandati e fuggitivi.
Ben presto dovette rendersi conto che, nonostante il suo passato di pluridecorato e grande invalido di guerra, le pressioni delle forze occupanti cominciavano a divenire sempre più insistenti. A nulla valsero le continue raccomandazioni pervenutegli da Fabrizio Vassalli, altro animatore della resistenza capitolina e medaglia d’oro al valor militare, circa il compromettersi della sua posizione. Una nuova informativa del 15 dicembre 1943 di Del Re in effetti confermò: «Grande è l’avversità del Generale Simoni Simone, abitante in Via Ferrari 2, per il Fascismo e soprattutto per il governo repubblicano, definendolo un Governo di “mascalzoni e delinquenti”». Il contenuto di questa nuova deposizione venne fatto pervenire al comando delle Ss a Roma.
Il 22 gennaio 1944, dopo aver partecipato a un incontro con alcuni esponenti della Resistenza capitolina, S. venne raggiunto nella propria abitazione da un drappello di soldati tedeschi che gli intimarono la resa e lo posero in stato di arresto. Venne immediatamente condotto nel carcere di via Tasso, dove fu sottoposto a un durissimo interrogatorio allo scopo di estorcergli informazioni riguardanti Montezemolo e il movimento resistenziale di Roma e provincia. Visto il netto rifiuto alla richiesta di rivelare qualsiasi nome o notizia utile, S. venne rinchiuso nella cella numero 12 e, nel corso dei successivi interrogatori, sottoposto a sevizie di ogni genere. Nella scheda matricolare prodotta nel periodo della sua permanenza a via Tasso, la motivazione dell’arresto di S. venne sintetizzata in «attività comunista segretariato militare». Nel corso del periodo di detenzione a nulla valsero i diversi tentativi di trattare il rilascio del prigioniero dovuti all’interessamento della diplomazia vaticana che, dopo l’udienza che il papa aveva concesso ai familiari di S., fu messa in moto da Pio XII. Nonostante le diverse richieste, furono accordate solamente alcune brevi visite al detenuto. In occasione di una di queste, S. riuscì a inserire nella biancheria un messaggio cifrato diretto ai suoi compagni di clandestinità: «Simone – Simoni – cella – dodici – Giuseppe – Ferrari – due – sono – malmenato – soffro – con – orgoglio – il – mio – pensiero – alla – patria – e – alla – famiglia». Nonostante torture e privazioni continuò a non rivelare nessuna informazione e si trincerò in un immutato silenzio. Da questa fermezza non riuscì a piegarlo nemmeno la finta fucilazione che Herbert Kappler organizzò il 4 febbraio del 1944 per cercare di vincere la ostinata convinzione del generale. Posto davanti al plotone non si scompose e, ricondotto a via Tasso dopo poche ore, non disse nulla ai suoi aguzzini.
Il 23 marzo del 1944 trentatré militi della forza d’occupazione tedesca vennero uccisi a Roma nel corso di un’azione condotta dal Gap locale in via Rasella. La rappresaglia decisa dal comando tedesco fu di condannare a morte dieci italiani per ogni tedesco morto nell’operazione gappista. S. venne inserito nella lista dei 335 prescelti. Dopo essere stato prelevato dalla sua cella venne dunque condotto alle Fosse Ardeatine e trucidato insieme agli altri prigionieri. Il suo corpo fu sepolto nel sarcofago numero 45 del sacrario delle Fosse Ardeatine.
Alla memoria di S. venne decretata la medaglia d’oro al valor militare con la qualifica di generale di divisione nel ruolo d’onore dell’esercito, con la seguente motivazione: «Valoroso combattente di otto campagne, grande invalido di guerra, superdecorato al valore, di eccezionali qualità morali e di carattere, fedele al giuramento ed al proprio dovere di soldato, partecipava tra rischi continui attivamente alla lotta clandestina contro il secolare nemico. Arrestato dalla sbirraglia nazifascista e sottoposto alle più inumane torture, manteneva con contegno fiero e virile l’assoluto segreto sull’organizzazione, salvando così la vita ad alcuni suoi collaboratori. In occasione di una esecuzione sommaria veniva per rappresaglia barbaramente trucidato facendo olocausto di se stesso per l’affermazione delle più alte idealità civili e militari. Chiudeva così, onorata dalla gloria del supremo sacrificio, una vita eroica intensamente e nobilmente spesa al servizio della Patria. Roma, Fosse Ardeatine, 24 marzo 1944».