Vuillermin Renato

Renato Vuillermin
Immagine: Istoreto, Aisrp, Raccolta fotografica
Nome: Renato
Cognome: Vuillermin
Luogo di nascita: Milano
Data di nascita: 08/02/1896
Luogo di morte: Savona
Data di morte: 27/12/1943
Ramo di Azione cattolica:
Partito politico:

Sommario

Note biografiche

Renato Vuillermin nacque a Milano l’8 febbraio del 1896 da una famiglia di origini valdostane, primogenito di sei figli. Il padre, seguendo una antica tradizione familiare, svolgeva la professione di vice cancelliere di tribunale ma morì prematuramente quando V. aveva solo dieci anni.

Nel corso degli anni giovanili frequentò le scuole elementari a Racconigi e il ginnasio all’Istituto salesiano presso la casa madre di via Cottolengo a Torino. Al termine di questo periodo, si iscrisse come aspirante sacerdote al seminario di Saluggia. Spostatosi al liceo di Valsalice, ebbe come professore il salesiano Antonio Cojazzi che lo indirizzò verso gli studi umanistici e, in particolare, alla letteratura apologetica.

Nel 1916 V. fu richiamato per adempiere agli obblighi di leva e, pur essendo assegnato in un primo tempo al corpo di sanità, ottenne su richiesta di essere spostato tra le fila di un battaglione di Alpini. L’anno successivo, assunto al grado di sottotenente, prese parte a un duro scontro sull’Ortigara rimanendo ferito a un braccio e alla gamba destra. Congedato nel 1919, poté riprendere il suo percorso di studi alla facoltà di Scienze naturali del Politecnico di Torino che era stato costretto a sospendere nel periodo trascorso sotto le armi e, dopo aver brillantemente sostenuto tutti gli esami, l’anno successivo V. conseguì la laurea con una tesi che analizzava la Riforma agraria secondo il metodo Solari.

In questi anni, per dare un valido sostegno economico alla famiglia che si barcamenava tra diverse difficoltà finanziarie, decise di entrare nella redazione del quotidiano cattolico «Il Momento» e nel contempo prese il proprio posto tra i primi aderenti al Ppi, del quale divenne stimato propagandista e conferenziere, partecipando come delegato al Congresso nazionale di Bologna del giugno 1919. Fin dal novembre dello stesso anno, invece, venne chiamato a sostituire l’avvocato Carlo Torriani come presidente del Consiglio regionale piemontese della Sgci e si impegnò nella redazione del settimanale «Giovane Piemonte», nel quale pubblicò diversi articoli non solo di taglio religioso e associativo ma, soprattutto, di critica politica e sociale. Nel corso della sua presidenza dovette affrontare i duri rapporti che contrapposero la Gioventù cattolica prima con i socialisti e, successivamente, con le prime formazioni di fascisti operanti nel capoluogo piemontese. Durante un contraddittorio politico tenuto nella cittadina di Chieri, ad esempio, dovette subire una violenta aggressione da parte di alcuni membri del Fascio locale che lo scaraventarono giù dal tavolino dove stava tenendo il comizio e tentarono di raggiungerlo con una coltellata. Nel corso del tempo ebbe diversi motivi di attrito con il movimento fascista visto che non lesinava duri e diretti attacchi dalle colonne delle testate alle quali collaborava, arrivando a definirlo come «un fenomeno di violenza» e, in quanto tale, «da combattere». Sottolineando la linea intrapresa dalla sua presidenza nella Giac ebbe anche a dire che il fascismo rappresentava «il diavolo» che «una volta o l’altra butterà via il travestimento», ammonendo i soci militanti a non confondersi con esso perché avrebbero trovato nei circoli di Ac «l’uscio di legno» ad attenderli.

In questo lasso di tempo divenne anche uno dei segretari dell’Unione del lavoro (Ul) di Torino e provincia e, eletto nel 1920 alla carica di consigliere comunale del capoluogo piemontese durante l’amministrazione di Carlo Cattaneo, si spese profondamente in favore delle categorie di lavoratori più in difficoltà e per portare sostegno a quella parte di popolazione che viveva in gravi situazioni di disagio.

Convolato a nozze con Eugenia Ruscazio, con la quale ebbe due figli, nel 1922 assunse il ruolo di insegnante di scienze naturali alle scuole superiori di Ivrea, tenute dalle suore di carità dell’Immacolata Concezione e, l’anno successivo, lasciò l’insegnamento perché gli venne offerto un posto di lavoro alla Società idroelettrica piemontese come impiegato presso i servizi legali. In questo periodo dovette subire una nuova aggressione da parte di un gruppo di giovani armati. Decise, vista la gravità dell’accaduto, di rispondere con una nota sul «Giovane Piemonte» per mostrarsi ancora una volta come fieramente avverso alle violenze del fascismo: «La grande causa della fede talvolta usa gli strumenti più indegni per il suo trionfo, perciò sulle mie povere spalle è piombata la responsabilità grande di essere uno dei colpiti per lei». Diverse furono ancora nel tempo le sue prese di posizione avverse all’instaurarsi del clima di violenza voluto dal fascismo. Nel settembre del 1922, durante il Congresso nazionale della Gc svoltosi a Roma, propose un ordine del giorno nel quale si affermava «l’incompatibilità di appartenere alla G.C.I. per coloro che non accettano il programma sociale propugnato dalla Chiesa Cattolica» e, alcuni anni dopo, lamentando la devastazione da parte di alcuni gruppi di fascisti dei circoli giovanili del territorio piemontese, decise di scrivere una lettera aperta a Mussolini nella quale sottolineava «uno Stato che non è capace di far rispettare le sue leggi è indegno di vivere, avete detto voi un giorno contro i liberali. On. Mussolini, è la vostra volta».

Nel 1924 V. decise di lasciare la presidenza regionale della Gc e, nello stesso anno, discusse la tesi della seconda laurea in Giurisprudenza sulla Crisi dello Stato e decentramento amministrativo dove, tra l’altro, metteva in evidenza alcune incoerenze di fondo del governo retto dal Partito nazionale fascista, che si presentava senza «una direttiva né accentratrice, né decentratrice» ed evidenziando un’azione politica «tortuosa e contraddittoria».

Fin dal 1926 prese parte attiva alla pubblicazione del settimanale «L’Idea popolare» e, inoltre, conseguì la sua terza laurea in Scienze politiche, con una tesi che approfondiva l’opera del gesuita Francesco Suarez. Nel corso degli anni ebbe modo di svolgere la sua professione di avvocato e di recarsi sovente a Roma, dove poté prendere contatti con noti antifascisti come Giuseppe Spataro, il maresciallo Enrico Caviglia, Alcide De Gasperi e di incontrare, nella sua residenza napoletana, Benedetto Croce. Nel 1930 conobbe il professor Augusto Monti che lo mise in contatto con il gruppo di Giustizia e libertà attivo a Torino e Milano e lo avvicinò al programma dell’Alleanza nazionale per la libertà, un’associazione antifascista che vedeva nelle forze monarchiche e cattoliche le uniche due correnti che, unendosi, potevano arrestare l’avanzata autoritaria del regime. Ben più attiva fu la sua presenza nel movimento Guelfo d’azione, gruppo clandestino nato allo scopo di riunire le correnti cattoliche legate dall’antifascismo militante e capeggiato da Piero Malvestiti.

Nel 1938 V., a causa del suo ostinato rifiuto di iscriversi al Pnf, dovette subire il licenziamento dal ruolo di capo ufficio legale del gruppo Sip ordinato dal prefetto di Torino. Per allontanarsi da nuove possibili violenze si spostò a Finalmarina, in provincia di Savona, dove l’anno precedente aveva acquistato un castello neogotico e dove riuscì a vivere tranquillamente per qualche anno aprendo un proprio studio legale.

Nell’anno dell’entrata in guerra nel secondo conflitto mondiale, infatti, V. venne nuovamente raggiunto dalle autorità fasciste che lo accusarono di connivenza con il nemico e, il 24 novembre, fu posto in stato di arresto per la sua attività di propaganda clandestina contro il regime. Condotto nelle carceri di Savona, venne accusato di essere uno dei capi del «complotto di Finale» e tenuto in prigionia per quasi un mese. Tornato in libertà, si mantenne cauto e cercò di non avere ulteriori screzi con gli apparati del regime ma, nel gennaio del 1943, una sentenza della Commissione provinciale di Savona lo condannò a cinque anni di confino a Giulianova, in provincia di Teramo. Raggiunto il luogo, prese contatti con noti antifascisti del teramano, con cui riuscì ad intessere contatti epistolari e, addirittura, avere alcuni incontri diretti. Il suo attivismo cominciò a destare sospetti e ben presto V. fu raggiunto da un nuovo ordine di trasferimento per porlo in condizione di totale isolamento. Spostato a Castelli di Teramo, in questa nuova collocazione venne raggiunto dalla notizia della caduta del regime e da quella della sua ritrovata libertà.

Alla firma dell’armistizio di Cassibile V. si trovò quindi presso Finalmarina ed espresse subito il desiderio di dare il proprio fattivo contributo alla lotta di liberazione nazionale che andava organizzandosi in diverse zone del nord Italia e cercò di prendere immediatamente contatti con Paolo Emilio Taviani per inserirsi nel nuovo fermento causato dalla rinascita della Dc.

La sera del 23 dicembre, però, a Savona venne fatta scoppiare una bomba presso un locale frequentato da tedeschi e repubblichini nel quale furono feriti un militare teutonico e uno squadrista della Rsi. Il capo della Provincia, Filippo Mirabelli, avviò le indagini e ben presto decise di costituire un tribunale militare straordinario per dare un preciso segnale alla popolazione e un duro colpo alla rete di resistenti che operava in quella zona. Senza alcuna prova e negando agli imputati la possibilità di difesa, venne stilata una lista di noti antifascisti che furono accusati di aver ordito l’attentato e di aver congiurato contro le pubbliche autorità. Vista la sua nota fama di oppositore del nazifascismo, tra gli uomini designati comparve anche il nome di V.

Il giorno di Natale del 1943, dunque, venne prelevato dai carabinieri presso la sua abitazione e tradotto prima al carcere di Finalborgo e, il giorno successivo, alla prigione di Savona. Due giorni dopo fu nuovamente prelevato, insieme ad altri sei prigionieri politici, e accompagnato davanti al tribunale militare perché gli venisse letta la sentenza di morte. Conosciuta la sua sorte, insieme al gruppo con il quale condivideva la detenzione venne condotto verso il forte Madonna degli Angeli dove un plotone di militi della Rsi, dopo avergli negato i conforti religiosi, eseguì la condanna di fucilazione. Al momento della sua morte V. lasciava due figli, uno dei quali, Fiorenzo, fu un combattente tra le formazioni della Resistenza con il nome di battaglia di «Renato», in onore di suo padre.

Fonti e bibliografia

  • Acs, Confinati politici, b. R. Vuillermin.
  • Lorenzo Mondo, Renato Vuillermin, Cinque Lune, Roma 1966.
  • Giuseppe Spataro, In memoria di Renato Vuillermin nel decennale del suo sacrificio, Savona 27 dicembre 1953, stamp. Tipografia Priamar, Savona 1953.
  • Aa. Vv., Renato Vuillermin e l’antifascismo cattolico, supplemento speciale della «Rivista abruzzese di studi storici dal fascismo alla Resistenza», Arti grafiche aquilane, L’Aquila 1981.
  • Ezio Bérard, Renato Vuillermin, un cattolico di frontiera: l’attualità di un Credo a cinquant’anni dalla morte, stamp. Tip. Valdostana, Aosta 1994.
  • Giuseppe Griseri, Vuillermin Renato, in Dizionario storico del movimento cattolico in Italia, diretto da F. Traniello, G. Campanini, vol. III/2, Le figure rappresentative, Marietti, Casale Monferrato 1984, pp. 900-902.

Hanno fatto parte di Unione uomini di Azione cattolica anche:

ISACEM – Istituto per la storia dell’Azione cattolica e del movimento cattolico in Italia Paolo VI
Via Aurelia, 481 – 00165 Roma. Tel. 06.66 27 925 – 06.66 132 443 – info@isacem.it

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