Luciano Dal Cero nacque il 7 gennaio del 1915 a Monteforte d’Alpone, in provincia di Verona, da Guglielmo e Cecilia Maschi. Ultimo di quattro fratelli, la sua fu una famiglia di modeste condizioni economiche e, a soli tre anni, egli rimase orfano della madre. Negli anni giovanili si inserì tra le fila dell’Azione cattolica prendendo parte alle attività del circolo giovanile della Cattedrale di Verona. Costretto da una grave malattia a sospendere gli studi superiori, riuscì a diplomarsi solamente al compimento del ventitreesimo anno e si iscrisse alla Facoltà di Scienze economiche e politiche dell’Università degli studi di Padova, dove fu socio del circolo Fuci presente nell’ateneo.
Esonerato dal servizio militare per riforma, nel corso del tempo ebbe modo di maturare diverse passioni e campi di impegno civile e sociale. A una particolare attenzione nei riguardi dei sanatori, centri ospedalieri per la cura di malattie croniche a lunga degenza, che lo portò anche a teorizzare una vasta opera di riforma per renderli maggiormente fruibili per i pazienti più giovani, aggiunse ben presto un’opera di moralizzazione del cinematografo, seguendo in questo senso alcuni indirizzi presenti anche nell’associazionismo cattolico. In particolar modo, infatti, egli volle dedicare il proprio impegno verso il nascente cinema per ragazzi tanto che, dopo aver progettato la nascita di alcune società cinematografiche, assunse la conduzione di alcune sale a Roma e volle cimentarsi nella scrittura di un’opera che intitolò I monelli di Verona, mettendo inoltre in cantiere altre redazioni di orientamento spirituale e sociale. In questo fermento di opere, tentò di creare una proficua collaborazione con la Pontificia Università Gregoriana per l’attuazione di cortometraggi per i più giovani a sfondo religioso e sulla vita missionaria.
Raggiunto dalla notizia della firma dell’armistizio di Cassibile, l’8 settembre 1943 D. si rifugiò in Vaticano e si spese per mettersi in contatto con il colonnello Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo, comandante del Fronte militare clandestino, dal quale ebbe l’incarico di far ritorno nel paese natale e costituire i primi nuclei della Resistenza nel territorio della Val d’Alpone, di Soave e Tregnano. Assunto il nome di battaglia temporaneo de «Il contrabbandiere», mise al sicuro la sua famiglia trasferendola in Trentino, nella zona di Sega di Ala. In questa località, inoltre, presso l’albergo gestito da alcune zie, permise al primo Cln veronese di porre una delle basi strategiche. Fu in questo periodo che egli si impegnò nella creazione di una vasta rete di salvataggio rivolta ai militari sbandati che si mossero immediatamente dai loro reggimenti per evitare l’internamento in Germania, agli ex prigionieri e agli ebrei che erano attivamente ricercati dalle forze nazifasciste e, in seguito, ai giovani che non vollero rispondere ai bandi di reclutamento emessi dalla Repubblica sociale. Il suo gruppo, inoltre, si evidenziò per una fervente opera di raccolta di viveri, di armamento e munizioni da consegnare alle bande impegnate nella lotta di liberazione.
A questo attivismo volto al rifornimento delle formazioni partigiane, affiancò fin da subito operazioni di sabotaggio verso le truppe di occupazione e scontri armati contro guarnigioni tedesche presenti nella zona. D. si distinse in diversi combattimenti con il nome di battaglia di «Paolo» fino a quando, conosciuta la sua identità, dei militi fascisti si presentarono a casa della famiglia e posero in stato di arresto la sorella, per indurlo a presentarsi e a collaborare alla cattura dei membri della banda. Il giovane, al fine di assicurare la libertà alla congiunta, decise di rispondere alla pressione e venne incarcerato agli Scalzi di Verona, dove condivise la cella con Norberto Bobbio, in attesa di giudizio.
Nel corso della prigionia, per costringerlo a confessare e a rivelare i nominativi di quanti avevano condiviso con lui la lotta partigiana, subì torture e sevizie. Di fronte all’ostinato silenzio, fu minacciato di essere fucilato. Condotto davanti al tribunale militare, D. venne condannato a un anno di carcere. Nel corso del periodo di detenzione si ammalò gravemente e dovette essere trasportato all’ospedale civile, quindi al sanatorio di Aniense e, infine, all’ospedale di Soave. In questo periodo, visto l’allentamento dovuto al cambio di destinazione, egli riuscì a riprendere periodici contatti con i comandanti delle bande partigiane e il 9 agosto del 1944, avvisato dell’ormai prossimo trasferimento verso il carcere di Verona, riuscì a fuggire dall’ospedale e a raggiungere i monti di Fumane.
Una vasta operazione di rastrellamento condotta dalle forze nazifasciste nella zona di operazioni della sua formazione portarono agli arresti di molti dei suoi collaboratori ma, nonostante la sempre maggiore pressione, egli intensificò l’attività e riuscì a organizzare e coordinare i partigiani provenienti dalla disciolta banda Pasubio. A metà ottobre del 1944, quindi, gli venne affidato il comando del IV battaglione che riuscì in breve tempo a portare a più di seicento effettivi, conducendo diverse operazioni per la creazione di servizi informativi in collegamento diretto con il locale Cln. Nel febbraio del 1945 la sua brigata assunse il nome di Luciano Manara, una delle più note figure del Risorgimento italiano, e lui stesso ne decise l’articolazione, nella stretta collaborazione, in diversi battaglioni.
In vista dell’insurrezione generale, D. diede precise direttive ai suoi uomini raccomandando la massima disciplina affinché nessuno potesse «agire sotto l’impulso della passione vendicativa, ma solo per impulso di giustizia», aggiungendo inoltre che chi fosse stato trovato disarmato avrebbe dovuto essere «solo fermato anche se è un delinquente. Niente sangue per vendetta». La cittadina di Soave fu liberata dal suo gruppo il 28 aprile e, il giorno successivo, D. si trovò insieme ai compagni a Gambellara, in provincia di Vicenza, per dare supporto all’azione partigiana. Durante il duro scontro a fuoco che caratterizzò le prime fasi del combattimento, egli venne raggiunto da una scarica di mitraglia alla testa che lo lasciò esamine a terra.
Vista l’esigenza di sospendere gli studi nel corso del terzo anno di Scienze politiche a causa della volontà di partecipare alla Resistenza, l’Università degli studi di Padova l’11 giugno 1947 gli concesse la laurea honoris causa. Il 26 aprile del 1951, durante una solenne celebrazione tenuta nell’Arena di Verona per celebrare il sesto anniversario della liberazione della città, il presidente del Consiglio Alcide De Gasperi consegnò le medaglie d’oro al valor militare alla memoria di Giovanni Fincato, colonnello degli Alpini e anche lui socio dell’Ac, e di D., con la qualifica di partigiano combattente e la seguente motivazione: «Portava nella lotta di resistenza al tedesco invasore l’entusiasmo della sua giovinezza e della sua anima ardente di patriota organizzando, potenziando e guidando sempre personalmente le formazioni da lui comandate e presso le quali aveva fatto rifulgere le sue doti di capo. Catturato nel corso di un’azione di guerra, per più giorni veniva sottoposto alle più atroci torture perché rivelasse i nomi dei compagni di lotta e l’entità delle forze partigiane, ma nessun nome, nessuna notizia uscì mai dalle sue labbra. Dopo duri mesi di prigionia che compromisero seriamente la sua salute già minata da una grave malattia riusciva, grazie ad un abile stratagemma, ad evadere e da questo momento, riparato in montagna riprendeva la lotta, a capo di una Brigata, con rinnovata fede ed energia. Le radiose giornate dell’insurrezione lo vedevano sempre primo alla testa dei suoi uomini incalzare da presso le forze tedesche in ritirata, sinché colpito a morte cadeva da prode nel nome d’Italia. Verona, settembre 1943 – 29 aprile 1945».