Ignazio Vian nacque a Venezia il 9 febbraio del 1917 da Agostino e Giuseppina Castagna. Trascorse gli anni giovanili presso la città natale dove, nel tempo, ebbe modo di attendere agli studi elementari e medi per poi passare al collegio Lodovico Manin gestito dagli Orionini. Ottenuto il diploma magistrale, si trasferì insieme alla famiglia a Roma, dove poté iscriversi alla facoltà di Magistero dell’Università La Sapienza per dedicarsi agli studi letterari verso i quali, fin da giovane, aveva sempre dimostrato interesse e passione. Fu nel corso del periodo trascorso nell’ateneo capitolino che decise di divenire socio del locale circolo della Fuci.
Dopo aver cominciato a svolgere la professione di insegnante presso alcuni istituti scolastici della capitale, V. venne chiamato alle armi per mobilitazione nel periodo appena successivo all’ingresso dell’Italia nel secondo conflitto mondiale e assegnato all’8° reggimento artiglieri di corpo d’armata. Congedato nel luglio successivo, nel gennaio del 1941 fu nuovamente richiamato in servizio e ammesso a frequentare il corso per allievi ufficiali di complemento di Arezzo, ottenendo la nomina di sottotenente e vedendosi destinato al deposito della guardia di frontiera presso Boves, in provincia di Cuneo.
Durante il periodo trascorso nel suo ruolo venne a conoscenza delle crudeltà perpetrate da alcuni reparti tedeschi durante le operazioni condotte nei territori occupati e, colto da profondo sdegno, ebbe a scrivere in un quaderno d’appunti: «Questo orrore ci è tanto più vergognoso in quanto noi figli dei martiri dell’indipendenza nazionale, nemici naturali di ogni genere di oppressione e di brutalità, incatenati alla biga di un pazzo, siamo costretti a secondarlo, aiutando con tutti i mezzi e col sangue il mostro del secolo». Trattenuto ancora in servizio nel marzo del 1942, passò alla 12ª compagnia mobile mobilitata del II settore di copertura presso la quale, l’anno successivo, venne raggiunto dalla notizia della caduta del regime fascista e, successivamente, da quella della firma dell’armistizio di Cassibile che sanciva definitivamente la fine delle ostilità con gli angloamericani.
Dovendo constatare l’ambiguità degli ordini provenienti dai comandi militari delle forze armate e, per questo, lo sbandamento dei reparti del Regio esercito che si trovavano a dover affrontare senza direttive i difficili eventi successivi all’annuncio della resa, V. decise di non rispondere all’intimazione di cedere le armi proveniente dai tedeschi e si affrettò a lasciare il proprio posto per non correre il rischio di essere catturato e deportato nei campi in Germania. Portatosi nei pressi del monte Bisalta, la montagna che sovrasta l’abitato di Boves, si attivò immediatamente per organizzare e dirigere un piccolo nucleo di partigiani che intendevano opporsi all’occupazione tedesca. La zona, compresa tra la Val Corsaglia, la Val Colla e le Langhe nel Monferrato, che occupò con il suo gruppo, fu infatti lo sbocco naturale di tanti ex militari che, in seguito allo scioglimento della IV armata italiana di stanza nel territorio della Francia occupata, si erano dati alla macchia per non cadere in mano alle truppe naziste. In questo senso, data la comune provenienza dagli ambienti militari di molti dei suoi compagni e il diffuso sentimento di fedeltà e lealtà nei confronti del giuramento fatto al re, V. decise di organizzare il suo gruppo, che in breve tempo arrivò a contare circa centocinquanta uomini, con regole e metodi che ricalcassero la formazione ricevuta nell’esercito. Dei caratteri della scelta armata compiuta dal giovane ebbe modo di parlare don Michele Pellegrino, allora professore all’università di Torino, con il quale V. si incontrò diverse volte durante il periodo trascorso tra i monti vicino Boves: «Compresi che la sua coscienza sentiva acutamente questi problemi. D’altra parte, della giustizia della causa da lui seguita era fermissimamente convinto. Affermava anzi risolutamente essere dovere d’ogni italiano lottare con le armi contro la repubblica fascista, non ammettendo nessuna forma di collaborazione, né di passività».
Nel primo periodo di organizzazione del movimento resistenziale in Piemonte, il nome di V. si legò agli eventi che portarono al tristemente noto eccidio di Boves. Il 16 settembre del 1943, dopo una inconcludente opera di affissione di manifesti per intimare ai militari del Regio esercito sbandatisi di consegnarsi per essere avviati ai campi di concentramento in Germania, un reparto della 1ª divisione corrazzata Leibstandarte-SS Adolf Hitler agli ordini dello SS-Sturmbannführer Joachim Peiper, si recò in forze nella cittadina di Boves per esigere la consegna delle armi e la resa delle prime bande di partigiani organizzatisi in zona. Quando, il 19 settembre successivo, due sottoufficiali tedeschi a capo di un’operazione di requisizione nel piccolo centro piemontese furono catturati dagli uomini del gruppo di V., la reazione nazista non tardò ad abbattersi sulla popolazione civile. Dopo aver inviato presso i partigiani una delegazione composta dal parroco don Giuseppe Bernardi e Antonio Vassallo, piccolo industriale della zona, allo scopo di ottenere il rilascio dei prigionieri, Peiper decise di attuare la rappresaglia ancor prima di conoscere il risultato dell’ambasciata. Nonostante l’avvenuta liberazione degli ostaggi concessa dallo stesso V., infatti, i tedeschi decisero di attaccare con forza le postazioni dei partigiani, di incendiare l’abitato di Boves e di condurre una feroce rappresaglia contro i civili rei, secondo loro, di aver dato sostegno ai ribelli sulle montagne. La giornata terminò con l’uccisione di ventitré civili e con più di trecento case rase al suolo.
Non cedendo alla tragica dimostrazione tedesca, V. decise di riorganizzare nuovamente il proprio gruppo nel territorio intorno a Boves fino a quando, individuata nuovamente come base partigiana, la cittadina venne nuovamente fatta oggetto dell’attenzione della politica repressiva nazista. Nei giorni a cavallo tra dicembre del 1943 e gennaio del 1944 venne ancora condotto un duro rastrellamento che portò, forzatamente, allo scioglimento della banda alle sue dipendenze e alla scelta di non costringere la popolazione a dover correre il rischio di ulteriori pericoli.
Deciso comunque a rinnovare la volontà di dare un contributo alla causa della Resistenza, V. passò in Val Corsaglia e nella primavera del 1944 prese contatti con Enrico Martini «Mauri» per far confluire i suoi uomini tra le fila del 1° gruppo divisioni alpine e assumere, vista la sua influenza, il ruolo di vicecomandante del raggruppamento. Mentre si spendeva per organizzare e coordinare la nuova formazione, il 19 aprile fu individuato a seguito di delazione e catturato da militi delle SS alla stazione di Torino dove si trovava per svolgere una delicata missione affidatagli dal locale Cln. Posto in stato di arresto, venne condotto prima nei locali dell’albergo Nazionale del capoluogo piemontese, allora sede del comando militare delle SS, quindi nel “braccio” tedesco delle Carceri Nuove, dove occupò la cella numero diciassette. Da questa data cominciò per lui un duro periodo di detenzione volto a debilitarlo nel fisico e fiaccarlo nel morale, allo scopo di estorcergli quante più informazioni utili all’individuazione della banda partigiana posta al suo comando e, soprattutto, i nominativi dei responsabili del movimento resistenziale della zona. Condotto giornalmente alla caserma di via Asti, V. venne torturato e seviziato ma, trinceratosi dietro un ostinato silenzio, ribadì a più riprese di non voler rivelare niente. Le sofferenze patite durante gli interrogatori e la volontà di non cedere davanti agli aguzzini lo indussero a tentare il suicidio, tagliandosi le vene con un coccio di vetro che aveva trovato nel tragitto tra il luogo di detenzione e quello di tortura e conservato allo scopo. Questo estremo atto di fedeltà alla causa non ebbe successo perché, scoperto dai suoi carcerieri, fu immediatamente sottoposto alle cure necessarie perché fosse in condizioni di ricevere la pena di morte che gli era stata inflitta.
Durante il periodo trascorso in carcere, a riprova della sua volontà di non rivelare nulla sui suoi compagnia di battaglia, ebbe modo di scrivere con il sangue sul muro della sua cella: «Meglio morire che tradire». Su una pagnotta che venne ritrovata successivamente e che ora è conservata dai familiari incise un brevissimo messaggio per la madre: «Coraggio mamma».
Il 22 luglio del 1944, a seguito del ferimento di un comandante fascista del gruppo carri Leonessa per mano di un gruppo di partigiani, sei uomini detenuti alle Carceri Nuove e totalmente estranei all’operazione vennero selezionati per la rappresaglia. Senza alcun formale processo, V. fu tra i nominativi designati e, condotto in corso Vinzaglio insieme a tre compagni, venne impiccato a un albero e lasciato alla vista dei passanti che, a scopo dimostrativo, vennero costretti a sostare per assistere all’esecuzione. Gli altri due detenuti prescelti subirono la stessa sorte in viale Giulio Cesare, all’imbocco dell’autostrada Torino-Milano. I corpi dei sei partigiani rimasero appesi per una settimana per l’irremovibile volontà del comando tedesco, che, inoltre, ne vietò la sepoltura a ulteriore monito per la popolazione della città. Il tragico episodio lasciò un tale retaggio nella memoria cittadina che il 29 aprile del 1945, a liberazione già avvenuta, nello stesso luogo venne impiccato il federale di Torino Giuseppe Solaro.
Nel dopoguerra alla memoria di V. fu conferita la medaglia d’oro al valor militare con la qualifica di tenente di complemento della guardia di frontiera e partigiano combattente con la seguente motivazione: «Primo fra i primi, organizzava il fronte della resistenza in Piemonte affrontando in campo aperto il tedesco invasore ed assumendo quindi la condotta della più epica battaglia della guerra partigiana tra gli incendi e le rovine di Boves, dove, chiamati a raccolta col suono delle campane i suoi volontari, in quattro giorni di dura lotta li incitava alla riscossa con la parola, l’esempio e il suo strenuo valore. Caduto in mano al nemico, con stoicismo sopportò le torture più atroci pur di non tradire i compagni di lotta. Sereno e cosciente salì al capestro nel nome d’Italia, martire della libertà, santo dell’idea. Boves, 9 settembre 1943 – Torino, 22 luglio 1944».