Federico Cristiano Ferrari nacque a Castelverde, in provincia di Cremona, nel 1919 da Ubaldo e Rachele Cervi, primo di quattro fratelli. Il padre, fervente cattolico e vicino al Partito popolare di don Sturzo, fu un convinto antifascista. Consigliere provinciale del Ppi dal 1920 al 1924, fu costretto dal regime a un momentaneo esilio in Valcamonica, poi a ritirarsi dalla vita pubblica perché fatto oggetto di minacce e intimidazioni di ogni sorta – una squadraccia fascista entrò con la forza nel suo studio di avvocato e gettò i mobili fuori dalla finestra – per indurlo a cessare definitivamente «ogni attività legale, o politica, a Cremona».
F. fu fin da giovanissimo iscritto al circolo Giac «Zaccaria» di Cremona, attivo nel convento annesso alla chiesa di San Luca. Fu però nel corso del 1935 che assunse sempre maggiori responsabilità in ambito associativo. Il 29 ottobre di quell’anno, infatti, nel suo diario annotò la prima partecipazione al «Consiglio federale d’Azione Cattolica» dove venne accolto «festosamente», seppur senza sentirsi libero di dare il proprio contributo di idee: «Mi sono ambientato subito, però non ho lanciato proposte concrete – aspetto ordini da P. Favero per lanciare novità». Durante la 17ª Assemblea diocesana, il giovane venne eletto consigliere federale per il biennio 1936-1938, ricevendo in quella sede l’approvazione pubblica del presidente diocesano «per la fiducia e simpatia che ti ha dimostrato la massa dei nostri giovani (e che anch’io pienamente condivido)». Comunque, nonostante l’entusiasmo mostrato a più riprese, egli non fece anche mancare motivi di critica verso i percorsi educativi proposti all’interno dell’associazione, come scrisse in una lettera proprio a padre Michele Favero: «Questa sensazione [di malcontento] si rivolge a tutta l’opera educativa nostra: non preoccuparsi dei fondamenti, mentre essi ci devono essere e ben fondi e incrollabili nella coscienza d’ognuno: se no si è foglia in balia del vento: è per questo anche che continuamente chiedevo da Lei per il Circolo Conferenze sulla Chiesa, etc.; e accolga il mio desiderio come uno stato d’animo di tutta una parte dell’Associazione, almeno di quella parte che per Associazione intende una scuola di cattolicesimo e non un luogo di ritrovo, un Club».
Durante gli anni liceali, trascorsi al liceo Daniele Manin di Cremona, F. perse il padre per una grave malattia nel 1936. Due anni più tardi, anche per seguire le orme del genitore defunto, decise di iscriversi alla Facoltà di Giurisprudenza all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, beneficiando di un alloggio presso il Collegio Augustinianum in piazza Sant’Ambrogio. Nel periodo trascorso nell’ateneo lombardo, prese parte alle attività della locale sezione della Fuci, avendo peraltro la possibilità di ascoltare diverse lezioni e conferenze tenute dal rettore padre Agostino Gemelli che, scrisse nel diario, era solito ascoltare con vivida «commozione» e con «bruciante e inqueta simpatia».
Fu in questi anni, inoltre, che divenne recluta della Milizia universitaria, alla quale giurò in forma solenne nel febbraio del 1939. Nonostante questa formale adesione, F. non dimenticò mai la tradizione antifascista familiare, dichiarandosi sempre particolarmente critico verso il regime. Già insofferente agli obblighi militareschi imposti dal Partito nazionale fascista, al punto da definire la «premilitare a passo di parata» una vera e propria «starnata» (intendendo probabilmente una marcia di galline starnazzanti), il 12 marzo del 1938 scrisse sul diario un duro attacco contro le scelte di politica estera di Hitler che condussero all’Anschluss: «Stanotte è avvenuta la vigliaccata più grande della nostra storia italiana: l’Austria[,] consenziente l’Italia[,] è stata assorbita dalla traditrice – mangia parola – nemica – forza e prepotenza nazista: l’Italia, dopo Dolfuss e Schussnigg, non s’è mossa; s’è fatta legare e giocare dalla Germania: perdo ogni rispetto e fiducia nella nostra politica estera: anche il nostro è un tradimento vigliacco: ma di questo son certo e contento: chi ne farà le spese sarà l’Italia. Hitler è il traditore – il massacratore – prepotenza vigliacca – un essere spregevole da far ribrezzo e vergogna». Quello stesso giorno, in segno di protesta, il giovane si rifiutò di prendere parte all’adunata «premilitare» fascista.
Richiamato sotto le armi per assolvere gli obblighi di leva, dopo il periodo di formazione F. ottenne il foglio di congedo illimitato provvisorio nel gennaio del 1939 ma, su richiesta, a marzo decise di frequentare il corso per allievi ufficiali di complemento a Canzo e, a maggio del 1940, la scuola allievi ufficiali del corpo degli Alpini a Bassano. A seguito dell’ingresso italiano nel secondo conflitto mondiale, si vide nominato sottotenente e, nel marzo del 1941, assegnato al 5° reggimento Alpini. Raggiunta la sua destinazione a Merano, fu scelto come vicecomandante del 3° plotone fucilieri della compagnia di addestramento del battaglione Edolo. Il 15 agosto fu trasferito in località Savoulx, presso Bardonecchia, assegnato alla 52ª compagnia, quindi ad Alpignano. Alla data del 30 giugno 1942 raggiunse il Quartier generale della divisione Tridentina, dove trovò in servizio l’allora tenente cappellano don Carlo Gnocchi e ai primi di luglio gli venne comunicato l’imminente partenza per il fronte russo: «Fra poche settimane noi prenderemo il treno per andare a fare un bel viaggio di piacere – ma non troppo – attraverso i Balcani per giungere alle distese pacifiche e infinite della steppa prima e al bianco delle montagnacce più tardi. Di questo abbiamo ormai certezza per comunicazione ufficiale avuta direttamente dal nostro comandante».
Partiti già a metà luglio a seguito dell’Armir, i battaglioni della divisione alpina si radunarono a Nowo Gorlowka, per poi attestarsi sul medio Don a difesa del settore di Gorbatowo. In questa esperienza, F. ebbe modo di approfondire la conoscenza di don Gnocchi, che descrisse come «un’anima finissima e dalle chiare idee» e «sempre più febbrilmente attivo». Nel gennaio del 1943, fu tra i tanti militi italiani costretti a partecipare alla tragica ritirata successiva alla controffensiva dell’esercito sovietico. Il 20 gennaio, a Opyt, nel momento in cui i russi si lanciarono nel tentativo finale di accerchiamento della divisione italiana, F. si guadagnò una medaglia di bronzo al valor militare per aver, «con pochi uomini», opposto una strenua «resistenza al nemico, animando ed incitando i propri combattenti col proprio esempio, nonostante il fuoco avversario procurasse paurosi vuoti fra le loro file». Di questo confuso, disorganizzato e tragico ripiegamento dell’esercito italiano il giovane tracciò un vividissimo ricordo in una lettera inviata alla madre: «Non sto a raccontarti la tragedia di quei diciassette giorni di marce forzate, in cui tutti si era nelle medesime condizioni di combattenti, tormentati da continui attacchi terrestri ed aerei dal freddo terribile in quei giorni – dalla mancanza di tutto, anche dei conforti più elementari: noi tutti avevamo tutto perduto dal primo giorno di attacco e ci eravamo ridotti ad avere solamente quanto si portava addosso. Né sto a descriverti gli orrori che abbiamo dovuto subire e vedere! Che sono indescrivibili».
Il 17 marzo riuscì a rimpatriare a Udine. Nei mesi successivi al suo rientro in Italia volle riprendere gli studi e, in una sessione straordinaria dedicata ai militari, riuscì a sostenere gli ultimi esami mancanti e a discutere la tesi di laurea con una dissertazione sull’«abuso del diritto», relatore il professor Giacomo Delitala. Tornato nuovamente al suo posto al comando della Tridentina, in questa occupazione venne raggiunto dalla notizia della caduta del regime fascista. Immediate furono le sue reazioni di giubilo espresse nuovamente in una lettera alla madre: «E della grande cosa dire!?! Se ci fosse ancora Papà che trionfo sarebbe stato!!! Immagino la tua esultanza e il tuo entusiasmo!! Tu che eri nella “lista nera”! E Farinacci che fa di bello e tutto il suo “entourage”?». Ad agosto fu assegnato all’Ufficio informazioni del comando di divisione di stanza a Bressanone e, qualche settimana dopo, proprio in tale contesto venne a conoscenza della ratifica dell’armistizio di Cassibile. Data l’ambiguità delle direttive provenienti dai comandi militari del Regio esercito, l’occupazione tedesca non trovò resistenze tra i militari italiani e anche la sua compagnia, appena ricostituita, non riuscì ad opporsi al colpo di mano dell’esercito germanico. Da questo momento ben poco si conosce dei suoi spostamenti visto che, seguendo il destino della sua compagnia e dei commilitoni, dovette subire un duro viaggio su un treno merci per essere internato in Germania. Al suo arrivo a destinazione, però, F. riuscì a tenere un diario della sua prigionia che molto ci dice dell’esperienza trascorsa da molti internati militari italiani in terra straniera.
Primo campo di arrivo e smistamento fu lo Stalag IA Stablack, situato nell’estremo nord della Prussia orientale, dove gli venne assegnato il numero di matricola 6183 che mantenne per tutta la prigionia. Riconosciutogli il grado di ufficiale, fu trasferito nell’Oflag 77 a Deblin-Irena, in Polonia, dove rimase fino al 28 febbraio 1944. La destinazione successiva fu lo Stalag IVB, situato nella località di Mühlberg, in Sassonia; ad aprile del 1944, dopo essere passato per un brevissimo periodo per lo Stalag IVG di Oschatz, raggiunse la destinazione definitiva a Weinböhla, sobborgo della città di Coswig, a pochi chilometri da Dresda.
Fu in questa dura e continua peregrinazione tra diversi campi che al gruppo di F. venne offerta a più riprese la possibilità di optare per la Rsi e ritornare immediatamente in patria per servire il nuovo regime di Salò. Appena arrivati al primo campo, quello di smistamento, venne in verità proposto loro di arruolarsi nei battaglioni italiani delle SS, ma la percentuale di adesioni (come testimoniato nel suo diario) fu veramente molto bassa. Alla fine del 1943, invece, mentre si trovavano a Deblin-Irena, la ben più «efficace prospettiva» di poter far ritorno in Italia, indusse parecchi compagni di prigionia ad accettare il compromesso, rendendo un discreto successo alla campagna di reclutamento con adesioni «vertiginosamente» più alte. In questo contesto così descritto, F. prese parte a tutti i dibattiti che coinvolsero direttamente i prigionieri per decidere il da farsi. Pur non nascondendo sul diario il suo tormento interiore per non avere optato, anche se «sono stato parecchio in forse», egli divenne il simbolo del rifiuto alle proposte nazifasciste all’interno della sua camerata, tanto da essere considerato «vessillifero di una resistenza a oltranza» e «senza compromessi». Questa considerazione personale del ruolo avuto nel suo gruppo sembra suffragata da un compagno di prigionia, il tenente Alberto Steffanoni, che lo avrebbe ricordato come pienamente «signore delle sue idee e padrone dei suoi ideali» nel suo fermo rifiuto a «firmare quella mostruosa formula di collaborazione». In una lettera affidata a uno degli optanti, quindi molto più libera dalla censura, riassunse ai familiari a casa i termini della sua ormai ferma decisione: «Non sono partito con i repubblicani; non ho firmato nessun impegno che mi possa legare a una nuova avventura, attenderò momenti migliori e la conclusione delle ostilità al posto dove la sorte mi ha collocato: ciò non per apatia o per timore, ma proprio per la ragione opposta. […] Io non pretenderò nulla oltre il riconoscimento del mio lealismo e del dovere compiuto anche nelle condizioni più drammatiche e più dure. […] D’altra parte quale sarà nel dopoguerra la situazione di costoro che pur trovandosi in condizioni eccezionali che forzavano la loro volontà, pure in ogni modo hanno consentito a dare un apporto alle forze che protraggono la guerra? Sono domande che ho ben valutate nella loro effettiva importanza volendo vedere la situazione nei suoi termini più alti». E ancora, in un’altra missiva, precisò: «Quasi tutti conoscono che le ragioni mie sono basate su una serena accettazione del dovere e della sorte e da una alpina decisione di resistere fino che sarà possibile, sacrificando quelle che sono le aspirazioni di questo incerto oggi a una serena operosa vita del domani. Senza dubbio è più duro restare che partire per i lidi italici; è più duro vivere nelle nostre condizioni che liberarsi comodamente da qualsiasi responsabilità per abbracciare la soluzione di tutte le nostre pene. […] Ciò faccio senza nessuna presunzione sapendo che essa combacia con quello che è il mio dovere: e la mia resistenza non è in attesa di alcun premio particolare, ma nella coscienza che il dovere come chiaramente io vedo non mi concede altra via». Addirittura, durante il periodo al campo di Mühlberg, F. rifiutò la collocazione lavorativa presso una fabbrica dell’apparato bellico tedesco, richiamando la propria posizione di internato secondo le norme internazionali della convenzione di Ginevra: «Non ho nessuna intenzione, con una decisione individuale, di mettermi al fianco della Germania e di riprendere la belligeranza».
Dopo aver trascorso più di un anno e mezzo internato in Germania, F. morì il 24 aprile del 1945, il giorno prima dell’arrivo degli Alleati, nel lager di Weinböhla, ucciso da una sventagliata di mitra di un milite nazista membro del Volkssturm locale che, nella confusione creata dall’esigenza di sgombrare al più presto il campo, decise di colpire quanti più prigionieri possibile.