Giuseppe Pelosi nacque a Brescia il 24 ottobre del 1919 da una famiglia di modeste condizioni economiche. Compiuti gli studi elementari e medi, si iscrisse all’istituto magistrale Veronica Gambara di Brescia e, conseguito il diploma, fu ammesso alla facoltà di Ingegneria dell’Università degli studi di Milano. Durante il periodo scolastico fu socio del circolo Giac attivo nella parrocchia dei Santi Faustino e Giovita e, dopo il passaggio all’Università, volle prendere parte con impegno e dedizione alle attività del circolo Fuci presente nella città natale. Nonostante il desiderio di dedicarsi con costanza allo studio, ben presto fu costretto ad interrompere il percorso accademico perché richiamato sotto alle armi per assolvere gli obblighi di leva.
Dopo un breve periodo di formazione militare, P. venne nominato sottotenente di fanteria e, visto l’ingresso dell’Italia nella Seconda guerra mondiale, si vide destinato al fronte jugoslavo per unirsi alla guarnigione italiana che aveva il compito di contrastare la guerriglia condotta dai partigiani di Tito. Nell’estate del 1943 venne inviato in Italia per un breve periodo di licenza e fu proprio durante le settimane trascorse a Brescia che venne raggiunto dalla notizia della ratifica dell’armistizio di Cassibile che poneva ufficialmente fine alle ostilità con le forze angloamericane.
Datosi alla macchia per non essere costretto a ripresentarsi al comando militare, dopo l’8 settembre P. prese immediati contatti con i responsabili del movimento resistenziale che andava costituendosi e si impegnò per organizzare e coordinare una formazione partigiana. In particolar modo, infatti, il giovane si pose alla guida di una banda che, dopo aver raccolto tra le sue fila ex militari sbandati e renitenti alla leva, operava nella zona di Croce di Marone, in Valtrompia. Molto stretto fu, durante questo primo periodo di attività clandestina, il suo rapporto con il parroco di Gardone Val Trompia don Francesco Rossi che, l’8 ottobre successivo, fu arrestato da militi tedeschi con l’accusa di aver tenuto discorsi antifascisti e, soprattutto, di mantenere contatti diretti con i partigiani.
Assunto il nome di battaglia di «Peppino», che in verità ricalcava il soprannome avuto fin da bambino, P. dimostrò le proprie capacità militari nell’azione che il 22 settembre portò il suo gruppo a disarmare la caserma dei carabinieri di Marone e, successivamente, nel colpo di mano contro la fabbrica d’armi Beretta di Gardone. Egli inoltre propose a più riprese ai responsabili del Cln di condurre in prima persona alcune operazioni più ardite che, però, furono bocciate perché considerate troppo pericolose. Secondo una testimonianza di Dario Morelli, «Sul finire del mese [novembre 1943], Pelosi sottopone al Cln un suo piano per catturare il commissario della Federazione dei fasci repubblicani di Brescia, nonché comandante della cosiddetta polizia federale (in pratica una squadraccia di ladri e assassini), Ferruccio Sorlini. Come in altre occasioni che si presenteranno durante tutto il tempo della guerra partigiana, la coscienza dei cattolici resta incerta davanti a soluzioni estreme. Per questo lo stesso Pelosi sollecita una risposta da parte di sacerdoti qualificati che sono anche fiancheggiatori del movimento di resistenza: a Palazzo S. Paolo ne discutono, con Lunardi e Francesco Montini, don Giuseppe Almici, mons. Giovanni Battista Bosio, p. C. Manziana, don G. Tedeschi e don Giacomo [Vender]. Ma una risposta decisiva – come l’avrebbe voluta Pelosi – ovviamente non avrebbe potuto essere data da nessuno, perché in certe ore si deve guardare solo dentro a se stessi». Il 30 novembre P. fu tra i partecipanti alla nota riunione tenuta a Brescia, a casa di Mario Priotti, durante la quale si formarono le prime formazioni delle Fiamme Verdi.
Il 14 dicembre del 1943, mentre si trovava rifugiato nei locali della canonica della parrocchia di San Giorgio a Ceratello di Costa Volpino guidata dal parroco don Domenico Mondini, P. venne raggiunto da una pattuglia di militi della Rsi che lo dichiarò in stato di fermo e lo condusse al comando della Gnr a Lovere. Alla perquisizione che seguì, i fascisti trovarono nei suoi abiti un appunto con i nominativi delle persone disposte a impegnarsi nella costituzione di una radio partigiana clandestina da installare a Brescia. Accusato di essere uno dei capi del movimento partigiano, il giovane venne condotto prima al carcere di Bergamo, poi a quello di Brescia e, il 27 dicembre successivo, al carcere del forte San Mattia di Verona. Qui, racconta don Carlo Manziana, egli non riuscì a resistere alle torture e alle sevizie che fu costretto a subire nel corso di lunghi ed estenuanti interrogatori e confessò la propria responsabilità: «La situazione logistica e il trattamento al forte S. Mattia erano inimmaginabili sotto ogni aspetto. […] Ma vennero anche i terrori degli interrogatori con imbarazzanti confronti, spesso conclusi con percosse a sangue inflitte dagli energumeni delle Ss. Alla sera, dopo queste drammatiche esperienze, si recitava nelle camerate il Rosario e don Vender ed io offrivamo con una breve riflessione la “consolazione delle Scritture”. Drammatica si faceva la situazione di Peppino Pelosi: sotto le torture aveva confessato tutto». Nel passaggio tra Brescia e Verona egli stesso aveva scritto alla madre della sua cattura: «Mammina adorata, certamente tu sai che io sono qui in carcere e sai che non per furto né per altra cattiva azione mi ci trovo, ma solo perché la mia coscienza di ufficiale del Re, di italiano, non mi ha permesso di piegarmi al disonore di divenire spergiuro».
A seguito della sua confessione, P. fu processato dal tribunale di guerra tedesco e condannato a morte. Prima di essere condotto al patibolo ebbe modo di scrivere una lettera ai genitori e alle sorelle: «Mamma, papà, sorelline adorate, ho appena salutato la mamma ed ora alle ore 15,30 mi hanno dato la notizia che stasera avverrà l’esecuzione della mia condanna e queste sono le mie ultime volontà. Nel nome di Dio Padre che mi ha creato, nel nome di Gesù suo figlio che mi ha redento, nel nome dello Spirito Santo che mio malgrado tante grazie mi ha elargito, nel nome della Trinità Augusta santissima nella quale ho sempre fermamente creduto, mamma, papà, Maria, Rosa, chiudo questa mia vita serenamente. Non ho rimpianti nel lasciare questa mia vita perché coscientemente l’ho offerta per questa terra che immensamente ho amato, e anche ora offro questo mio ultimo istante per la pace del mondo, e soprattutto per la mia diletta Patria, alla quale auguro figli più degni e un avvenire splendente. […] Mamma, papà, sorelline ricordatevi di me, io sarò sempre con voi, per tutta l’eternità. A Dio – Vostro Peppino. Infiniti bacioni». Posto dinnanzi al plotone d’esecuzione, P. venne dunque fucilato il 16 marzo del 1944 al Forte San Procolo.
Nel dopoguerra alla memoria di P. venne decretata la medaglia d’argento al valor militare con la seguente motivazione: «Valoroso combattente della libertà ripetutamente distintosi per ardimento e sprezzo del pericolo. Catturato nel corso di un’audace missione e sottoposto a duri interrogatori rispondeva alle sevizie con il più assoluto silenzio finché, condannato a morte, affrontava sereno e da prode il plotone di esecuzione».