Giacomo Prandina nacque il 25 luglio del 1917 a San Pietro in Gu, piccolo paese in provincia di Padova afferente alla diocesi di Vicenza, da Opprendino e Adelaide Lovato, ultimo di dieci fratelli. I genitori, di modeste condizioni economiche, erano dediti alla cura dei campi di loro proprietà dai quali traevano il sostentamento per la numerosa famiglia.
Cresciuto in un ambiente impregnato di profonda religiosità, P. si avvicinò ben presto all’oratorio parrocchiale del paese natale e al locale circolo della Giac. Mons. Bortolo Castegnero, arciprete di San Pietro in Gu, parlando della partecipazione del giovane agli ambienti dell’associazionismo cattolico ebbe a dire: «L’ideale dell’apostolato ben presto conquistò la sua anima sempre aperta alle nobili iniziative di bene, ed appena poté abbracciò con entusiasmo il programma dell’Azione Cattolica nelle cui file militò sempre, gregario fedele, dirigente saggio, equilibrato ed apprezzato propagandista». Dopo aver terminato gli studi elementari, P. ebbe modo di frequentare i primi tre anni di ginnasio a Sandrigo e, durante le giornate trascorse in questa cittadina, conobbe ed apprezzò gli insegnamenti di mons. Giuseppe Arena, che nel 1924 era stato protagonista di diversi episodi di aperto dissenso verso le violenze delle squadre fasciste e, successivamente, di continue frizioni con gli apparati del regime.
Espresso il suo desiderio di affrancarsi dal lavoro dei campi per poter continuare a studiare, P. si vide ammesso al seminario di Vicenza dove terminò il ginnasio e, quindi, i rimanenti anni di liceo classico. Ultimato il percorso di studi superiori e ottenuto il diploma, decise di iscriversi alla Facoltà di Ingegneria elettrotecnica dell’Università degli studi di Padova dove, nel corso del tempo, volle anche prendere parte alle attività del circolo Fuci presente nell’ateneo. Frequentò i corsi con grande dedizione e, superati tutti gli esami, si laureò con il massimo dei voti. Vista la sua ferma volontà di non fermarsi nel percorso di approfondimento, volle seguire la sua inclinazione e iscriversi alla specializzazione in Ingegneria aeronautica del Politecnico di Torino, terminando il percorso di studi ancora una volta con piena soddisfazione.
Ultimato l’iter universitario, P. dovette rispondere agli obblighi di leva e nel 1941 venne richiamato per svolgere il servizio militare. Ammesso al corso preparatorio di tre mesi presso il Genio aeronautico di Palermo, si vide assegnato a un reparto di costruzioni aeronautiche di stanza a Torino. Nel marzo del 1943 fu promosso sottotenente di complemento nel ruolo ingegneri e nel giugno successivo venne inviato alla scuola di applicazione di Firenze, dove rimase per un tempo molto breve. Due mesi dopo, infatti, fu assegnato al Comando della seconda regione aerea di Padova. Fu in questa destinazione che il giovane venne raggiunto dalla notizia della firma dell’armistizio di Cassibile e, visto il generale sbandamento delle forze armate italiane che caratterizzò le giornate successive all’8 settembre, egli decise di lasciare il suo reparto chiedendo una licenza che gli venne regolarmente concessa.
Conscio della drammaticità del momento, causato soprattutto dall’assoluta incertezza e ambiguità derivanti dai contradditori ordini che provenivano dai comandi militari, P. decise di raggiungere la famiglia a San Pietro in Gu, rifiutando peraltro diversi inviti di alcuni commilitoni, che lo sollecitavano a superare il confine per riparare in Svizzera insieme a loro.
Fatto ritorno nel paese natale, dunque, si prese alcuni giorni di riposo per analizzare la situazione bellica e per capire quale sarebbe stata la scelta giusta da fare per non venir meno al giuramento fatto durante il servizio militare. Resosi immediatamente conto che i tedeschi si erano mossi con grande anticipo per non farsi trovare scoperti di fronte alla decisione del governo Badoglio, P. dovette inizialmente osservare inerme i movimenti di truppe che portarono all’occupazione da parte delle forze germaniche di tutta la zona del padovano e del vicentino. Dopo diversi giorni di forzata attesa, egli decise di inserirsi tra le fila del costituendo movimento resistenziale e cominciò a organizzare una banda di partigiani raccogliendo in pochi giorni diversi giovani provenienti dalle zone frequentate durante la sua giovinezza. Con questo gruppo coordinò una vasta e pericolosa opera di assistenza agli ex militari italiani che erano fuggiti dai propri reparti per non essere internati in Germania, ai prigionieri alleati ricercati, e agli ebrei e noti antifascisti della zona che cercavano rifugio per qualche tempo. Ben presto, però, fu evidente il bisogno di estendere l’area d’influenza della banda per riuscire a operare su più vasta scala: P. si mosse a nord-ovest della provincia di Padova fino ad arrivare a quella di Vicenza, riuscendo a infoltire le fila della formazione anche grazie ai numerosi contatti provenienti dalla rete e tra i circuiti dell’associazionismo cattolico.
Il grande carisma e il forte ascendente che riusciva ad assicurarsi alla guida dei suoi uomini è sovente ricordato da chi ebbe la possibilità di conoscerlo nel corso di questo periodo. Gaetano «Nino» Bressan, uno dei maggiori protagonisti della lotta partigiana nel Vicentino, di lui ebbe a dire: «Più volte [Prandina] dovette venire a parlare a me, profano della sua idea e personalmente disorientato, prima che egli riuscisse a convincermi della bontà ed utilità vera dei suoi arditi propositi. Ma finalmente egli mi convinse, lo capii, seguendolo, anche dopo il suo arresto, nella complessa attività militare partigiana». Mons. Bortolo Castegnaro, pochi mesi dopo l’avvenuta liberazione, volle testimoniare come P. riuscì a far coesistere la sua religiosità con la volontà di combattere nella Resistenza: «Formato alla scuola del Vangelo, del Vangelo intese attuare, compatibilmente con le sue forze, gli alti moniti, le sublimi elevazioni dello spirito, che se in una sfera superiore hanno dato in ogni tempo alla Chiesa gli eroi della virtù, i santi, nell’ambito umano hanno pure fornito in ogni tempo alla Patria le schiere dei magnanimi che, ispirati da sincero amore e temprati al sacrificio, furono nelle epoche d’emergenza gli artefici genuini della sua salvezza».
Resosi conto di non poter continuare con un numero così limitato di effettivi, P. volle prendere contatti con le organizzazioni clandestine già presenti nella zona per poter dare il proprio apporto in un contesto più ampio. A questo scopo, quindi, avvicinò il rettore del seminario di Vicenza, quel mons. Giuseppe Arena che aveva già avuto modo di conoscere nella sua giovinezza, che lo mise in contatto con alcuni professori che erano attivi e conosciuti nel movimento resistenziale tra cui don Mario Bolfe e don Antonio Frigo, i quali, grazie alla loro influenza, riuscirono a fargli avere contatti con altri capi della zona.
Con i gruppi partigiani organizzati venne infine costituita una brigata che si unì ad altre formazioni della zona dando corpo alla divisione Vicenza, alla cui guida venne posto il capitano Nino Bressan e di cui P., che nel frattempo aveva assunto il nome di battaglia di «Pi Erre», divenne commissario politico. Sempre a lui, inoltre, venne assegnato il compito di intessere e mantenere solidi contatti con l’organizzazione militare della Resistenza veneta – nella quale spiccavano, in qualità di comandanti di formazioni partigiane altri soci di Ac, come Giovanni Carli e Giacomo Chilesotti – e con il Cln provinciale, nel quale si inserì come rappresentante della Democrazia cristiana e nel quale ebbe modo di conoscere Torquato Fraccon. A questo scopo, inoltre, egli fece ampio uso di diverse staffette, tra le quali vi era sua nipote Rosina Zambello – «Anna» – a cui assegnò il compito di fare da spola con i messaggi da inviare alla Brigata dei Sette Comuni.
Pur operando con prudenza per mantenere il suo operato nella clandestinità, P. venne ben presto messo sotto osservazione dagli apparati di controllo della Rsi che lo individuarono come uno dei massimi esponenti della Resistenza nella zona del Vicentino. Sfuggito per circa cinque mesi a un mandato di cattura, il 31 ottobre 1944, dopo aver presieduto a una riunione tenuta a Vicenza nella canonica della Madonna della Pace, fece ritorno a San Pietro in Gu per assistere la madre malata. Al suo arrivo presso la casa dei genitori, venne raggiunto da un plotone di militi della Gnr che lo aspettavano per porlo in stato di arresto. A nulla valse un effimero tentativo di fuga, che si risolse ben presto nella resa al comandante della pattuglia.
Insieme ai fratelli Antonio e Angelo, anche loro fermati ma rilasciati già nella stessa serata, venne condotto inizialmente alla caserma di Sandrigo e, successivamente, trasferito alle carceri San Biagio di Vicenza per scongiurare un possibile tentativo di liberazione da parte dei suoi compagni partigiani. La detenzione durò cinquantatré giorni, nei quali dovette subire duri interrogatori, torture e sevizie di ogni tipo allo scopo di estorcergli qualsiasi informazione utile all’individuazione della sua cellula di resistenti. Trincerato dietro un ostinato silenzio, nel corso delle lunghe giornate trascorse in cella ebbe modo di dividere la prigionia con Torquato Fraccon e suo figlio Franco che, come lui, erano in attesa di conoscere la loro sorte.
Il 21 dicembre 1944 P. fu nuovamente trasferito dal carcere di San Biagio a Bolzano dove, insieme ai Fraccon, fu fatto salire su un camion e condotto a Mauthausen. Da questo trasferimento in poi poco si è saputo dei suoi ultimi giorni e l’unica notizia che fu comunicata ai familiari fu la sua morte nei primi giorni di marzo del 1945 a causa degli stenti causati dalla dura vita del campo e, quindi, della sua cremazione nel forno del sottocampo di Gusen II il 13 marzo seguente.
Con decreto del presidente della Repubblica del 1° agosto 1947, pubblicato nella «Gazzetta ufficiale della Repubblica italiana» del 3 agosto 1949, alla memoria di P. venne decretata la medaglia d’oro al valor militare con la qualifica di sottotenente di complemento del Genio dell’aeronautica militare e partigiano combattente con la seguente motivazione: «Di casa in casa, di paese in paese, ancora ricordato con commosso pensiero da quanti ascoltarono la sua parola, fu apostolo di fede che insegnò ai giovani, che scosse i dubbiosi. Le prime squadre partigiane dell’alto Padovano e del Vicentino furono da lui amorosamente curate e potenziate, i primi campi di aviolancio da lui impiantati, i primi servizi di raccolta notizie da lui organizzati. Uomo d’azione partecipò a centinaia di atti di sabotaggio, emergendo per ardire e sprezzo del pericolo. Arrestato subì disumane torture che, se piegarono il suo corpo, ne rafforzarono l’anima e mantenne spirituali rapporti con i compagni di fede che non volle spendessero per salvarlo energie e forze da riservare solo alla lotta per la Patria oppressa. Deportato in Germania e rinchiuso in un campo di annientamento, soccombette alla fame, agli stenti e alla pena che fino alla morte consumò il suo cuore in un’ardente fiamma di amore per la Patria lontana. San Pietro in Gu, settembre 1943; Ma[u]thausen, marzo 1945».