Giuseppe Zannini nacque il 2 febbraio del 1917 a Bari da Marco, impiegato comunale, e Adele Lubrano, casalinga. Dopo aver atteso agli studi medi presso il Regio istituto tecnico Giulio Cesare, si iscrisse al liceo Arcangelo Scacchi della sua città natale. Diplomatosi nella sessione autunnale del 1936, l’anno successivo venne richiamato sotto le armi per assolvere gli obblighi di leva. Presentatosi in caserma venne sottoposto a visita medica e, in seguito ad attenta valutazione, riformato «per esiti di cataratta traumatica». Iscrittosi alla facoltà di Scienze economiche e politiche dell’Università Adriatica “Benito Mussolini” di Bari, partecipò alle attività del Guf. Nel fascicolo studentesco la sua partecipazione alle attività organizzate dal regime è provata da una lettera datata novembre 1938 in cui l’aiutante maggiore della Mvsn, comando VIII legione universitaria, concede il proprio nulla osta per l’iscrizione del «fascista universitario Giuseppe Zannini» al 3° anno della facoltà di Scienze politiche.
Il 6 giugno del 1940 Z. si laureò in Economia politica ottenendo il massimo della votazione. La sua tesi, dal titolo Modernità di Galiani in rapporto alla teoria del valore, venne seguita dal professor Angelo Fraccacreta, noto per essere stato uno dei firmatari del manifesto antifascista di Benedetto Croce nel 1925 e primo rettore dell’ateneo barese dopo la caduta del fascismo. Fu durante gli anni trascorsi nell’università pugliese che il giovane si avvicinò definitivamente agli ambienti dell’associazionismo cattolico e si inserì tra le fila della Fuci dove ebbe la possibilità di fare la conoscenza con Aldo Moro, di un solo anno più vecchio, che già dal 1937 era presidente del circolo barese e nel 1939 sarebbe divenuto presidente nazionale.
Nel 1940 Z. fece domanda per essere assunto presso il Credito italiano. Nel questionario allegato alla richiesta il giovane diede ampia testimonianza della sua precedente appartenenza alle organizzazioni fasciste, dichiarando di aver fatto parte della milizia universitaria col grado di «camicia nera», di essere stato «fiduciario del IV corso della facoltà di Scienze politiche», di essere «iscritto ai corsi di preparazione politica» organizzati dal regime e, infine, di avere la tessera del Pnf dal 10 ottobre del 1939. Proprio durante i corsi di preparazione politica del 1941, Z. ebbe modo di presentare una relazione a un convegno sul sindacato fascista. Su «La Gazzetta del Mezzogiorno» venne riportato un ampio stralcio del suo discorso: «Il camerata Zannini ha posto in evidenza le differenze intercedenti fra il sindacalismo italiano e gli altri sindacalismi: si è fermato in particolare a esaminare i principi basilari del nostro sindacalismo e la natura giuridica del sindacato ed ha concluso mettendo in luce il carattere nazionale, etico e totalitario del nostro sindacalismo».
Il 1° agosto del 1940, dopo aver esaminato la sua pratica, la dirigenza del Credito italiano gli comunicò l’assunzione come impiegato all’ufficio portafoglio della sede di Bari. Lo studio e l’approfondimento della materia economica lo portarono anche a comporre brevi saggi tra cui quello che venne pubblicato sui numeri del 20 e 30 agosto 1941 di «Azione fucina» con il titolo di Dinamica economica.
A seguito della morte del padre, avvenuta nel febbraio del 1943, Z. chiese alla propria filiale di potersi trasferire insieme alla madre a Bologna per avvicinarsi alla fidanzata, Matilde Camaiori, attiva fucina a Pisa, che aveva conosciuto tempo prima grazie alla comune militanza nella Fuci. Lo spostamento divenne ufficiale solo il 31 agosto successivo, data dalla quale il giovane cominciò il nuovo lavoro come impiegato presso la segreteria della sede del capoluogo emiliano.
In questo contesto venne raggiunto dalla notizia della firma dell’armistizio di Cassibile che, ponendo fine alle ostilità con gli angloamericani, aprì drammaticamente le porte all’occupazione dell’Italia centrale e settentrionale da parte delle truppe tedesche. Particolarmente attivo nell’ambiente cattolico cittadino, Z. si inserì con impegno e dedizione nelle attività dei fucini bolognesi che lo conobbero immediatamente come un serio osservatore della realtà sociale e lo apprezzarono per la sua posizione fortemente critica maturata nei confronti del fascismo. Scrisse di lui Achille Ardigò, fucino dal 1938 e attivo nel movimento resistenziale: «Di recente trasferito a Bologna […] e perciò non conosciuto in città a eccezione che nella FUCI bolognese in cui in poco tempo aveva acquisito una indiscussa posizione di leader naturale, Giuseppe Zannini aveva avvertito i limiti di generazione e di classe media dell’attivazione sino allora compiuta dal gruppo “fucino” antifascista». Per ovviare alle lacune formative dovute alla convivenza con il regime, insieme a personalità come Ardigò, Angelo Salizzoni e Fulvio Milani, egli promosse e fu relatore di conferenze su temi sociali, politici, economici che si svolsero principalmente nel collegio di San Luigi. Particolarmente rischiosa fu la sua opera di propaganda antifascista tra studenti e operai nella zona industriale di Santa Viola che, sempre secondo Ardigò, «aprirono ai fucini partecipanti problemi umani e sociali fino allora mai percepiti». Con Salizzoni e Milani, inoltre, sostenne la necessità di elaborare una linea politica e sociale del mondo cattolico per sollecitarne la partecipazione agli organismi del Cln. Fu attivo nella preparazione della formazione partigiana che venne poi chiamata 6ª brigata Giacomo, motivando in tal modo, dopo la guerra, il riconoscimento alla sua memoria della qualifica di partigiano dal 1° maggio 1944.
La mattina del 21 maggio 1944 i carabinieri di San Lazzaro in Savena, paese dove Z. era sfollato insieme alla madre, eseguirono un ordine di cattura emanato dai tedeschi a carico del giovane e della sua fidanzata perché lo avevano individuato come uno dei maggiori responsabili del movimento antifascista cattolico che andava sviluppandosi nel territorio cittadino. L’arresto avvenne nell’ambito della retata delle SS contro il convento di Santa Maria dei Servi, presso il quale Zannini era solito alloggiare alcune notti. Dopo una breve detenzione presso la caserma fascista di via Magarotti, venne trasferito nel carcere di San Giovanni in Monte e interrogato a più riprese per indurlo a confessare la sua partecipazione alla Resistenza e i nomi dei compagni. Fallito ogni tentativo di ottenere informazioni da lui, il 6 giugno del 1944 venne trasferito al campo di Fossoli e assegnato al blocco n. 19 con la matricola 1405.
Fu in questo tragico contesto che conobbe don Paolo Liggeri il quale, arrestato a Milano nel 1944, seguì Z. nelle diverse tappe fino a Mauthausen. Di questo incontro il sacerdote, in una lettera inviata alla madre del giovane nel dopoguerra, ricordò alcuni tratti: «Ci eravamo incontrati per la prima volta nel campo di concentramento di Fossoli. Subito fece amicizia con me e con un gruppo di giovani ferventemente cattolici ed animosi che si trovavano nel campo, partecipò a tutte le adunanze per il commento settimanale del Vangelo […]. Anzi, in queste adunanze era uno dei più ardenti e assidui. Partecipava immancabilmente e animatamente alle interessanti discussioni, spesso da lui suscitate».
Scampato, così viene ricordato sempre dal sacerdote, all’inserimento nella lista dei settanta fucilati del 14 luglio al poligono di Cibeno – episodio in cui persero la vita, tra gli altri, i soci di Ac Carlo Bianchi, Rino Molari e Luigi Alberto Broglio –, due settimane dopo il giovane partì da Fossoli con un gruppo diretto verso il campo di transito di Gries-Bolzano. Da questa data si interruppe definitivamente ogni canale di comunicazione con la famiglia che, fino al 1946, non seppe più nulla di lui.
Il successivo 5 agosto 1944 Z. venne nuovamente selezionato per essere condotto da Bolzano verso Mauthausen insieme ad altri trecento compagni di sventura. Arrivato a destinazione due giorni più tardi, venne classificato come «Ital. Schutz» e si vide assegnata la matricola 82553. Nella carta personale riservata a ciascun prigioniero da questa data si susseguono, laconicamente, i vari incarichi di lavoro ricevuti durante la sua permanenza nel lager. Il 24 agosto, terminata la quarantena, venne inviato a Gusen I e, fino al 9 settembre, risulta impegnato nella «costruzione di cantine», locuzione con la quale si indicavano tutte quelle opere volte all’interramento del sistema di officine della ditta Steyr per difendere la produzione dagli attacchi aerei. La durezza di questo compito è ben sottolineata ancora una volta da don Liggeri che, parlando della condizione di Z., scrisse: «A Gusen il caro Zannini, specialmente all’inizio, ebbe a soffrire in modo particolare perché nella baracca di cui egli faceva parte (n. 15) e che si trovava accanto alla mia (n. 16) c’erano capi particolarmente brutali che non avevano alcuna simpatia per gli italiani. Poi fu assegnato a un lavoro assai faticoso (lavoro di piccone per la sistemazione di alcune gallerie che dovevano essere adoperate come stabilimenti sotterranei). […] Fu in queste circostanze che Zannini ebbe a lottare particolarmente contro la stanchezza e lo scoraggiamento». Dal 9 settembre cominciarono le sue difficoltà di salute. Per circa venti giorni, risultò infatti degente nell’infermeria del campo, poi di nuovo adibito al lavoro presso l’apparato industriale tedesco, quindi nel gennaio del 1945 tornò in infermeria. Dal 30 gennaio, quando venne aggiornata per l’ultima volta la sua scheda personale, non si sa più nulla circa la sua sorte. La morte sopraggiunse, come da comunicazione ufficiale del comando alleato, «per sfinimento» a causa delle sevizie patite durante l’internamento e dello sfiancamento dovuto al duro lavoro, il 15 maggio del 1945 presso l’ospedale militare allestito dagli americani successivamente alla liberazione del campo. Solo nel 1946 il Ministero dell’Assistenza postbellica diede notizia agli appositi uffici comunali di Bari dell’avvenuta morte dell’«ex deportato dott. Giuseppe Zannini» che risultava «deceduto nel campo di internamento in Germania nell’Ospedale americano n. 131 di Gusen I (Mauthausen) a metà maggio 1945 per sfinimento».